Un pomeriggio di primavera

DI ANTONIO MARTONE

 

Oggi pomeriggio il tempo era splendido. E anche la campagna era splendida. Primavera dispiegata nell’aria e rondini tanto felici da correrti incontro, evitandoti all’ultimo istante. La campagna e la sua vegetazione – piante ed erbe di tutte le dimensioni e di tutti i tipi – sono già rigogliose: spinte da una forza troppo grande per essere trattenuta.

In questo periodo, la campagna è come una fanciulla adolescente, gioiosa di vestire per la prima volta i suoi abiti da donna e di farsi guardare con malizia.

Ho camminato a lungo: due o tre ore, senza meta, per le campagne, lasciando talvolta le vie maestre (quanto mi piace lasciare le vie maestre), per inoltrarmi nel folto della vegetazione accompagnato dallo scalpiccio dei miei passi e dall’odore dell’erba verde.

Ci sono dei campi che si inoltrano fino all’orizzonte, a perdita d’occhio, punteggiati dai colori di fiori piccolissimi che diventano, una volta che lambiscono l’orizzonte, un colore unico e compatto a stento distinto dal colore rosato del cielo.

Ad un tratto, ho visto una sagoma nel folto del bosco. Di solito, non ho paura di incontrare un mio simile, né lo evito per principio, e anche stavolta ho fatto in modo di incrociarlo. L’ho salutato, si è voltato verso di me e l’ho visto bene in viso: si trattava di una persona anziana che camminava a fatica.

Calzava ai piedi un paio di stivaloni grossi e aveva un coltello nella mano sinistra. Nella mano destra stringeva un mazzo di asparagi selvatici appena colti e aveva negli occhi una ferita frutto di un dolore recente. Abbiamo parlato. Mi piace la sensazione che mi inonda quando mi intrattengo con una persona sconosciuta, e in maniera del tutto anonima: non sento il peso di una identità da sostenere e il ventaglio delle possibilità della conversazione è più ampio e libero.

Umberto (era questo il suo nome) è uscito da pochi mesi dall’ospedale. Operazione al cuore molto rischiosa: tre by-pass. Parlava del dolore e dell’ansia della sua famiglia e della Madonna del suo paese a cui aveva chiesto di aiutarlo. Quando ha descritto la pena indicibile di entrare in camera operatoria, non sapendo se ne sarebbe mai uscito, non ce l’ha fatta a trattenersi ed è scoppiato a piangere.

Siamo rimasti in silenzio a lungo: intorno a noi, gli uccelli crepitavano di gioia rincorrendosi nelle siepi e nel folto degli alberi.
Ci siano salutati. Non so perché mi abbia ringraziato. Avrei dovuto essere io a ringraziare lui. Tornando a casa, la primavera, già bellissima prima, mi è parsa ancora più bella mentre sentivo le mie gambe leggere camminare sulla terra già rinfrescata dalla sera.

 

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