Un solo desiderio

DI ROBERTO BUSEMBAI

Avevo nella testa un sogno e nelle scarpe la voglia di camminare, avevo mille cose ancora da fare e dire, insomma avevo la speranza del futuro che mi si prospettava innanzi, avevo forse molti anni meno, gli anni che è naturale avere voglia di scappare.

Era un freddo mattino di un inverno davvero glaciale, erano giorni che il sole se ne stava divertito nascosto e dormiglione nelle sue sconosciute stanze, la pioggia e il vento erano i padroni del mondo, ma quel mattino dovevo andare era il mio primo giorno, un giorno da studente universitario.

Un passo davvero importante, ma in quell’ora così ancora notturna più che mattiniera, soltanto la giovinezza e la spogliata sensazione di novità mi portavano in quella stazione solitaria come può essere solitaria una stazione alle 4 e mezza di mattina.

Padova era lontana, Padova non la conoscevo affatto e non ci ero mai stato, lo sbrigo delle pratiche d’iscrizione ero riuscito a farlo tramite amiche di amiche, diciamo un tramite lungo da Lucca a Padova che al tempo ancora si poteva attuare.

Telefonini, messaggi e invio file erano davvero ancora sepolti ben bene sotto terra, ancora sementi fermi e nascosti da germogliare, ma il tramite funzionava, un passa mano, una postina improvvisata, un aggancio fortuito con altre studenti stabili in quella città, amici conosciuti e tanti da conoscere con altrettanti soltanto sentiti nominare.

E il treno era il solo mezzo di comunicazione che mi potevo permettere al tempo, l’auto un miraggio, ma le linee non erano molto collegate ( come poi del resto ancora oggi , almeno per la mia città, i collegamenti sono antiquati) e dovevo effettuare vari cambi prima di arrivare, il che portava ad un viaggio lungo ed estenuante, partire alle 4,30 di mattina per essere a Padova intorno alle 9,30, se tutto andava bene.

Ma il treno andava bene perchè mi permetteva di svagare ogni mio pensiero e l’ansia della prima volta, la città da scoprire, l’ateneo da trovare, e iniziare come un profondo sconosciuto quell’impresa che davvero era stata una mia cocciutaggine, assolutamente lontana da quello che fino ad allora avevo studiato. 

Era anche vero che era finalmente una mia scelta, voluta e desiderata, senza interferenze familiari, come invece erano state imposte per la scelta del diploma. Il treno, quel mezzo di allora che comportava di sognare e dialogare, conoscere e condividere momenti eccezionali.

Buongiorno e buongiorno ancora e seduti in stretta vicinanza in scompartimenti vari su poltrone di finta pelle, primi approcci, salve io scendo a…io invece ritorno a…e così via con il procedere quasi lento di un treno regionale.

E se non avevi voglia di parlare, avevi comunque la bellezza interiore di ascoltare e si svolgevano davanti temi da romanzi rosa, o fatti di cronaca, governi disprezzati, divisioni politiche diversificate a risate o strette di mano o pacche sulla spalla, quel fattaccio della moglie uccisa o del marito scoperto in flagrante amoroso, e borse, profumi, a volte anche odori, ma Padova era lontana e sopportare il silenzio sarebbe stata ancora più dura.

Fuori dal finestrino la vita aveva il suo duro risveglio, auto incolonnate davanti a passaggi a livello di paesi e borghi vari, terre gelate e campi imbiancati da brine, palazzi di provincia dalle finestre accese come occhi assonnati all’improvviso e malvoluto risveglio, pianura padana immersa nella nebbia, consolidata visione di sempre, e pioppi alti come scheletri o fantasmi precisamente allineati come una processione, e fumi di camini accesi o termosifoni.

Scusi signore, anche lei scende a Monselice? Avrei bisogno di una mano per le valige.
No mi dispiace, scendo a Padova ma se vuole l’aiuto ugualmente.
E due parole in più, un sorriso, uno scambio di vedute che nasceva un sentimento che già amicizia si poteva chiamare, e fu così che divenimmo davvero amici per un fortuito caso di aiuto personale.

Lei aveva la mamma ricoverata in un ospedale vicino a Lucca ma lavorava a Padova alla segreteria dell’Università, la mia stessa facoltà. Io ero diventato quasi infermiere, per le volte che andavo a trovare e aiutare la signora Amelia, così si chiamava la sua mamma, e lei divenne la mia personificazione per ogni aiuto alla facoltà.

Amelia era anziana ma molto malata e entro l’anno morì, Padova era una città lontana e i bisogni di sopravvivenza non mi permettevano tanta libertà di trasferimento, la famiglia, il lavoro, e studiare di notte non erano il meglio, e  dopo due anni e dieci esami l’abbandonai, e con quella ragazza, Irene, ci perdemmo tra lettere sempre meno frequenti, tra matrimoni improvvisi e altri accadimenti quotidiani.

E non ho nessun rimpianto, soltanto un desiderio quello di ritrovarmi su quello stesso scompartimento di treno, che mi permetta ancora di viaggiare senza sentire un bip o musica di cellulare, o un volto serio e compito che scortesemente mi passa davanti e prende la sua valigia.
Un treno che non sia pieno di silenzio (fatto di rumore) e vuoto di condivisione.

Immagine tratta dal web

 

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