Un tabaccaio a Brooklyn

DI GIOVANNI BOGANI

 

Ogni tanto, si legge di qualche barbone che muore: e fra i suoi stracci si scopre un tesoro di migliaia e migliaia di pagine, scritte nell’arco di decenni.

Può essere la storia del mondo dalla preistoria ad oggi, o quella della città di New York.

O la storia di cinquant’anni di un quartiere. Beh, io li ho sempre amati, quelli che hanno tentato di raccontare la storia del mondo: naturalmente, senza riuscirci mai.

In un film che si chiama “Smoke”, che vidi col cuore febbricitante di emozione in un cinema di Berlino, nel 1993, c’è una strada qualunque di Brooklyn. È estate.

Il tabaccaio Harvey Keitel invita lo scrittore malinconico William Hurt nel suo retrobottega, a vedere il suo progetto. Una serie di fotografie, tutte scattate al mattino presto, tutte dallo stesso angolo fra due strade.

Ogni mattina, il tabaccaio scattava una foto. Con il sole, con la pioggia, con il vento. Nelle foto c’è un signore col cappello, una mamma con i figli, ragazzini che corrono. O nessuno.

“Ci lavoro da anni”, dice il tabaccaio. “Ma sono tutte uguali”, dice William Hurt, benevolo ma sconcertato. Eh no, dice l’altro.

Sembrano uguali, ma sono tutte diverse. Cambia il tempo, cambiano le persone. Alcune passano più volte davanti all’obiettivo.

Guarda, questa dev’essere tua moglie, l’anno prima di morire. E lo scrittore capisce che in quelle foto c’è, a saperla leggere, tutta la storia di quel quartiere, di quegli anni, e forse anche un po’ della sua vita.

Oppure Proust. Che parte da un ricordo, e da lì comincia a dipanare un mondo intero, rivelando a ogni frase nuovi dettagli di mondo, colori, pensieri, sfumature di pensieri così sottili che non sapevamo neppure di averli, pensieri così.

Una scrittura come un arabesco infinito, che alla fine disegna un mondo, e forse disegna il mondo.

Ma ogni opera d’arte disegna un’immagine del mondo intero, e cerca di dirci qual è il senso del vivere e del morire.

Solo che a me piacciono le opere che lo fanno sfacciatamente: come quei film che durano dieci ore, portandoci in un viaggio che ci trascina via da noi: o come il tuffo nello spazio dell’astronauta di “2001”, in paesaggi che nessun occhio umano ha mai visto, forme dell’universo che non assomigliano a nessuna forma esistente.

Un viaggio nell’infinito, ecco ciò che amo. E non importa se si parte da un angolo di strada a Brooklyn, o da un’astronave lanciata dello spazio, o dal giardino di casa, scegliendo la strada di Swann o quella di Guermantes.

 

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