Verrà il tempo della migrazione! (Prima parte)

DI MARINA AGOSTINACCHIO

C’ è un’artista statunitense, Mary Mattingly, che da una ventina d’anni si propone di “educare” l’umanità a una dimensione di vita volta a “diminuire la nostra impronta ecologica”.
Mi incuriosisco e vado ad esplorare di che cosa si tratta. Sopravvivenza e sostenibilità, questo il suo slogan.

Pensate che nel 2001 ha incominciato a costruire case ”da indossare”.
Ecco, allora, che Mary agisce come una vera e propria trasformista; una casa che diventa tenda, dotata di sistemi di purificazione dell’acqua funzionanti, costruiti con materiale “di scarto” inserito nelle maniche.

Il senso del suo lavoro sta nella visione di un mondo che recupererà le proprie “radici nomadi”, nel momento in cui l’uomo sarà costretto a migrare. Quindi l’artista focalizza l’attenzione sull’ ideazione di “ambienti indossabili”, realizzati in un crocevia di ingegneria, scienza fantasia.

Mary Mattingly vedeva nell’arte la possibilità di risoluzione ai guasti ambientali, dopo essere stata testimone dello sfruttamento dell’acqua e della sua privatizzazione in parecchie parti della terra.

Progetta, allora, nel porto di New York un’isola galleggiante, completamente autonoma, una risposta al suo modo di concepire uno stile di vita coerente alla propria etica di vita. Ma tra un’idea e la sua attuazione Mary dovette attraversare anni di passaggi burocratici e di accordi.

Alla fine l’opera, chiamata Waterpod, è divenuta realtà. Si tratta di un riparo galleggiante, “mobile e nomade, scultoreo ed ecologico”, una proposta diversa agli ambienti domestici a noi famigliari e pensato per convivere con le maree che accrescono.
Dice l’artista: «Il mio lavoro propone un mondo tornato alle radici nomadi, quando gran parte della popolazione mondiale sarà costretta a migrare».

Per la realizzazione dell’isola galleggiante, Mary ha fatto ricorso a materiali attinti alla catena dei rifiuti e a un’economia di baratto. «La creatività di questo atto onnicomprensivo di costruzione di sistemi di riciclo e riuso, di ponte tra le burocrazie e che mi ha portata a vivere per cinque mesi su una nave, ha davvero cambiato la mia prospettiva di ciò che era o meno possibile e radicato il mio desiderio di creare spazio per un cambiamento».

Certo per comprendere concretamente l’operazione dell’artista, possiamo pensare a quanto si fa nelle scuole per educare già i bambini al concetto di riuso e riciclo. Ad esempio, per fare capire cosa sia il riuso, si fa vedere, attraverso la concretezza esperienziale, come si possono riutilizzare oggetti che non sono ancora diventati rifiuto e che possono anche essere impiegati con la stessa finalità per cui erano già stati utilizzati in precedenza; come pure il concetto di riciclo diventa concreto facendo portare materiali di scarto e di rifiuto da recupero e riuso, per insegnare come dare una nuova vita ad oggetti (o prodotti), uguale alla precedente o diversa.

Nell’estate del 2009 la nave galleggiante si è spostata lungo l’East River, ha percorso le acque del porto di New York, approdando in diversi moli di Manhattan e sull’Hudson. Più di 200.000 persone l’hanno esplorata quando si trovava nel porto di New York. «Se la gente portava a bordo oggetti usa e getta, dovevamo trovare rapidamente un modo per conservarli o riutilizzarli».
Tra l’altro il progetto, nato all’interno di uno spazio pubblico, è vissuto solo per sei mesi per via dei permessi.

L’opera assurgeva così a emblema di un pensiero critico intorno all’ambiente e intorno all’arte, divenendo esempio di nuove forme di vita, tecnologie DIY, (una tecnologia volta a curare gli aspetti migliorativi della nostra vita o a risolvere problemi, attraverso lo sviluppo di strumenti o di macchine) , arte e dialogo.

Il progetto Waterpod si è posto come punto di incontro positivo “tra le comunità pubbliche e private, artistiche e sociali, acquatiche e terrestri”, venendo a contatto con la ricchezza culturale dei cinque distretti di New York e degli spazi acquatici attraversati.

«Il progetto ha incarnato l’autosufficienza e l’intraprendenza, l’apprendimento e la curiosità, l’espressione umana e l’esplorazione creativa».
Mary Mattingly ha vissuto per mesi evitando di accumulare qualsiasi tipo di oggetto superfluo.
Proprio per la sua forza comunicativa, il Waterpod ha fatto scattare la scintilla ideativa per nuovi studi e prodotti artistici; Mary infatti ha pensato di rimettere in circolazione gli oggetti rimasti.

«Ne ho dati via un po’ e ho impacchettato il resto in grandi monumenti». Ma prima di questo, ha ricercato la storia di questi oggetti narrandone la vita, con grande cura, in un giornale online.
L’artista ha posto in seguito la sua attenzione sui pochi oggetti lasciati fuori dai pacchetti, “quelli essenziali”; tra essi, anche la sua macchina fotografica.

Come una piccola navicella ottica all’interno di un corpo, ha analizzato gli elementi costitutivi di ogni singolo oggetto e indagato sulle relative storie, (i minerali utilizzati, la produzione, gli scarti industriali).
Il lavoro di Mary Mattingly è una lunga meditazione sullo stato dell’ambiente, di una terra il cui destino sarà, secondo l’artista, quello di impossibilità abitativa, a causa della degenerazione ambientale.

Per cui lo sguardo rivolto e quasi in modo ossessivo agli oggetti da parte di Mattingly nasce da una visione filosofica su quanto potrebbe essere essenziale, indispensabile, portabile, in un nostro eventuale nomadismo migratorio, per la continuazione della nostra esistenza in altri spazi.

Del resto la forma mentis dell’artista nasce dalla sua un’infanzia trascorsa in una località poco lontana da New York, una cittadina dove la comunità era dedita all’agricoltura, bisognosa quindi per la sua attività di acqua pulita e dove l’acqua stessa era inquinata da pesticidi, come il DDT.

Così Mary Mattingly ha cominciato a costruire sculture portatili quali soluzioni alla problematicità data dal poter attingere ai bisogni primari, e soprattutto dopo essere venuta a conoscenza della privatizzazione dell’acqua di Bechtel in Bolivia.
Alla prossima!

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