DI MARIO MESSINA
William Burroughs,
La scimmia sulla schiena.
BUR
La mia pagina di recensioni ha già avuto modo di “ospitare” libri aventi per narratori soggetti affetti da tossicodipendenze.
Si trattava, nello specifico, di vicende romanzate ambientate in Italia tra gli anni Settanta ed Ottanta.
Narrazioni che ambivano, principalmente, a fornire una chiave di lettura che potesse far comprendere le ragioni che portarono alla diffusione della droga in un determinato contesto storico ed in un circoscritto ambito sociale.
Con il libro di Burroughs ci muoviamo, invece, su ben altro crinale.
L’autore, tra i pionieri della Beat Generation, attinge alla sua biografia per articolare quelle che potrebbero essere definite le “riflessioni di un drogato”.
Ma con delle specificità che rendono questo libro ben altro rispetto al classico flusso di coscienza di un disperato.
L’impressione che si ricava a fine lettura, infatti, è quella di aver attinto quasi ad un piccolo trattato per la scientificità che contraddistingue quella che rimane, comunque, un’opera letteraria.
Il punto di vista che se ne ricava è straordinariamente lucido se si considera un abuso di sostanze, da parte dell’autore, protratto per più di un decennio.
Non ci troviamo, pertanto, di fronte ad una vicenda meramente autodistruttiva quanto piuttosto dinanzi ad una pagina di letteratura venata da una analisi molto lucida e rigorosa.
Lo scorrere delle pagine ci permette, così, di “vedere” attraverso gli occhi del drogato.
Di assumere, temporaneamente, il suo punto di vista per percepirne stati d’animo e sofferenze.
I casi in cui il protagonista risulta lapidario non sono rari dando vita a delle massime che arrivano dritte al punto.
La voce narrante, a mò di esempio, ci riferisce: <Ho imparato l’equazione della droga. La droga non è, come l’alcool o come la marijuana, un mezzo per intensificare il godimento della vita. La droga non è euforia. È un modo di vivere> (pag.34).
E per sintetizzare, crudamente, la vita di un tossico così, ancora, afferma: <Ho bisogno della droga per alzarmi dal letto al mattino, per radermi e far colazione. Ne ho bisogno per rimanere in vita> (pag.66).
Una dipendenza totale che porta con sé conseguenze ulteriori: <[…] Feci le prime esperienze con gli stupefacenti, divenni un tossicomane, e di conseguenza iniziò per me l’assillo, l’autentica necessità del denaro che prima non avevo mai avuto> (pag.32).
Burroughs, mantenendo il suo colto e freddo punto di vista ci offre, così, la prospettiva di cosa possa significare divenire uno spacciatore: <Finisci rovinato e in galera. Tutti ti chiamano tirchio se non fai credito; e se vendi a credito, se ne approfittano> (pag.75).
Oppure: <Spacciare droga significa assoggettarsi a un’ incessante tensione nervosa. Prima o poi ti prende l’ossessione dei piedipiatti e tutti ti hanno l’aria di poliziotti> (pag.108).
Ma ci sono, in particolare, due circostanze a convincerci che questo libro non sia un mero piangersi addosso da reietti.
Il primo è sicuramente il fatto che l’autore non smetta mai di cercare risposte ad interrogativi che da sempre assillano la società.
<Mi si potrebbero porre, naturalmente, altre domande: perché ha provato i narcotici? Perché ha continuato quanto bastava per divenire un tossicomane? Si scivola nel vizio degli stupefacenti perché non si hanno forti moventi in alcun’altra direzione. La droga trionfa per difetto. Io la sperimentai a titolo di curiosità. Continuai a praticarmi punture quando ne ebbi la possibilità. E finii con il restar preso all’amo> (pag.33).
Il secondo consiste nel voler suggerire una soluzione che ponga fine a tutto questo.
Un elemento tutt’altro che scontato data l’irriducibile volontà dello scrittore di ricercare sostanze sempre nuove da sperimentare: <Forse io troverò nello yage quello che cercavo nella droga, nella marijuana, nella cocaina. Lo yage può essere l’ultima dose> (pag.230).
L’autore affida, così, all’intervento pubblico il compito di invertire una tendenza.
Arginando il consumo e colpendo, al contempo, il traffico illegale di stupefacenti.
<Le statistiche del Dipartimento Narcotici indicano che, nel momento in cui scrivo, esistono negli Stati Uniti sessantamila tossicomani individuati dalla polizia. […] Tutto sta invece a indicare che una gran parte dei tossicomani potrebbe essere guarita definitivamente dalla terapia con apomorfina. Ai tossicomani incalliti e a coloro che soffrono di una dolorosa malattia cronica potrebbe essere consentita una dose di mantenimento prescritta da un medico […]. L’intero mercato nero della droga verrebbe abolito […] permettendo ai medici di prescrivere una dose minima agli ammalati. Con questo sistema il malato non è costretto a comprare droga al mercato nero. Può svolgere la sua occupazione normale e condurre una vita non criminale> (pag.242).
Con piglio scientifico è sempre Burroughs a illustrarci che: <La proprietà unica dell’apomorfina consiste nella sua azione di regolatore metabolico; nella farmacopea non esiste alcun’altra sostanza capace di questa azione regolatrice del metabolismo, per cui il paziente non ha più bisogno della sostanza sedativa o stimolante alla quale si era assuefatto> (pag.249).
Sono trascorsi quasi settanta anni da queste riflessioni. Ed il fallimento delle politiche proibizioniste è sotto gli occhi di tutti.
Si vuole invertire la rotta o non si vogliono scontentare, in realtà, quelle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico ed orientano i voti?
Perché l’autore, dal ventre della bestia, ad ogni quesito si sforza di fornire una risposta.
I benpensanti, ahimè, si limitano, invece, a declamare slogan. Magari col naso “infarinato”.
Immagine tratta dal web
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