Zingari: nomadi di sentimenti

DI CARLO MINGIARDI

Ero uscito di sera per una urgenza, fare il medico nei posti dimenticati da Dio è sempre un’impresa. Non conoscevo ancora bene quei luoghi e sulla via del ritorno ebbi la chiara sensazione di essermi perduto. L’oscurità e la nebbia non aiutavano di certo ed i rari cartelli stradali sbiaditi contribuivano al mio senso di smarrimento.
Arrivato ad un bivio svoltai a sinistra, la segnaletica orizzontale era completamente svanita e dovevo fare molta attenzione per rimanere al centro della carreggiata.

La strada asfaltata dopo un po’ diventò sterrata, le chiazze d’erba spelacchiate venivano schiacciate dalle ruote che arrancavano. I fari illuminavano cumuli di immondizia dai quali schizzavano fuori ratti enormi, poco dopo varcato un ponticello mi sembrò di essere entrato nella terra di nessuno. All’improvviso iniziai a vedere dei flebili lumini come frammenti di lucciole, a quel punto non potevo tornare indietro perché la strada era troppo stretta.

Un senso di inquietudine mi assalì quando arrivai in un largo spiazzo e vidi con stupore baracche malconce in compensato e lamiera, attorniate da vecchie roulotte e macchine parcheggiate malamente.
Capii subito che era un campo rom, uscii con apprensione dall’auto e vidi che un paio di ragazzotti mi venivano incontro con disinvoltura.

“Buonasera, sono un medico, mi sono perso, dovrei tornare a Viticchio…”
“Ciao sono Bojan, sei un dottore… che bellezza”.
“Si, stavo facendo una visita e al ritorno con la nebbia devo aver sbagliato strada”.
“Puoi visitare qualcuno di noi che ha bisogno?”
Chiese subito il ragazzo con gentilezza.
“Penso di sì… se dopo mi indicate la strada per tornare a casa!”
“Va bene amico, grazie mille, seguimi…”

Ormai ero in ballo e dovevo ballare, però i modi di quel ragazzo mi erano sembrati cortesi, nelle sue parole c’era accoglienza e non ostilità, lo seguii.
Mi fece strada sui viottoli tra le baracche. Erano quasi tutte casupole sghembe in compensato, coperti da teloni di plastica con dei pannelli di tela a coprire l’entrata. In certi casi erano così vicine tra loro che non si riusciva a distinguerle. Bojan si avvicinò a una famiglia che ci stava osservando dall’ingresso della casupola.
“C’è un medico che può visitare tua moglie, possiamo entrare?”
Un uomo scurissimo in volto e robusto mi guardò e disse:
“Non c’è problema, entrate”.
All’interno mi colpì l’odore di stantio e il livello di sporcizia, troppo elevato per il mio senso di comfort.

Una vecchia mi precedette e mi mostrò la casa con il gesto della mano. Due bambine con le trecce scure erano sedute in terra, sembravano lei in miniatura: bambole zingare. Su di un fornello a gas da campeggio, stava bollendo una pentola di verdure. Un tramezzo posticcio separava una camera, dentro sul letto una donna raggomitolata su se stessa.
“Cosa ha fatto…?”
Nessuna risposta. Mi avvicinai le misi una mano sulla fronte, era caldissima.
Chiesi anche a lei cosa avesse fatto, mi indicò con la mano il basso ventre, notai delle chiazze di sangue sulla gonna a fiori.

Intuii subito cosa fosse successo, presi il discorso alla larga.
“Quanti figli hai avuto?”
“Sette”.
“Interruzioni di gravidanza?”
“Si ne ho avute tante… in quindici anni di matrimonio…”
“Quanti aborti?”
“Dieci, questo è l’undicesimo, è successo stamattina… non ne posso più…!”
Non sapevo cosa dire, fortunatamente nella borsa avevo una scatola di Prostaglandine, le dissi quante ne doveva prendere.
“Dovresti andare in ospedale per un controllo più approfondito, io posso fare ben poco.
“Grazie tante dottore, va bene così, ce l’ho sempre fatta da sola”.

Uscii fuori dalla baracca scosso per quanto avevo visto, Bojan mi disse se potevo visitare un suo amico, acconsentii. Poco più avanti entrammo dentro un’altra baracca fatiscente, dentro un uomo con una sola gamba, si teneva a fatica su due stampelle , i suoi vestiti laceri e sporchi come il suo viso.
Anche con lui presi il discorso con cautela:
“Come ti chiami?”
“Victor Raduci”.
“Quanti anni hai”.
“Sono nato nel 79 ma non so mese e giorno”.
“Come fai a campare?”
“Chiedo l’elemosina”.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla gamba recisa sopra il ginocchio, l’altra fasciata con una benda lurida.

Gli dissi di sdraiarsi su quello che avrebbe dovuto essere un giaciglio e gli sollevai il pantalone dalla parte della benda. Quando tolsi la fasciatura scoprii una enorme piaga purulenta, iniziai a medicare la carne infetta. Mi veniva la nausea alla vista di quella ferita aperta. Avrei voluto uscire fuori ma le sue parole mi costrinsero a rimanere lì.
“La ferita è molto grave, c’è una grande infezione dovuta al ristagno venoso, probabilmente per questo hai perso l’altra gamba”.
Mi rivolsi a Bojan:
“Deve andare subito in ospedale altrimenti gli taglieranno anche questa gamba”, feci del mio meglio in una situazione che mi metteva in difficoltà.
“Mi raccomando domani vai in ospedale, è importante!”
“Va bene ci andrò… grazie”, mi rispose con l’aria arrendevole di chi ha perso ogni speranza.

Quella sera visitai una decina di persone, quasi tutte situazioni difficili, mi stupì la dignità velata di quella gente e la rassegnazione per quello che la vita gli aveva riservato. La notizia si era sparsa nel campo e tanti rom erano usciti dalle baracche curiosi.
Stavo prendendo accordi con Bojan per accompagnarmi sulla statale quando da un angolo nell’oscurità udimmo la musica di una fisarmonica. Il suono si avvicinò e il musicista uscì dall’ombra. Subito i presenti iniziarono a battere le mani, a cantare, le donne ridevano e i bambini sgambettavano allegri.

La musica vivace e allegra, ci trasportò subito in un luogo perfetto dove c’era posto anche per la gioia.
Pensai immediatamente ai confini angusti della nostra esistenza.
Il ragazzo mi guardava con occhi scuri e brillanti, emanava una vivacità schietta e aperta. Provai sgomento, in quel momento la mia vita aveva perso qualsiasi punto di riferimento, non vedevo più orizzonti conosciuti.
Non lo conoscevo, lui non conosceva me, avrei voluto essere come lui, avrei voluto avere la sua forza, avevo trovato in quel ragazzo una ricchezza, la potente energia di un nomade.

Avrei voluto rubargli la sfrontata vitalità con cui affrontava il destino, avrei voluto rubare a uno zingaro il suo senso della vita.
Avevo bisogno anche io di sangue, di sale e di allegria, per far funzionare le vene del mio corpo stanco, avevo bisogno di un nuovo inizio.
I volti di quella sera passavano nella mia mente e capii perché ero capitato in quel posto: avevo bisogno di fuochi notturni e canti, di sporcarmi le scarpe di fango, di stare sotto la luna piena, di libertà.
Perché continuavo a tenere la mia vita in ordine, tutto è fuori dal nostro controllo.

Non sapevo cosa percepisse Bojan dalla mia cupezza, mi guardava e sorrideva felice.
“Sei sposato?” Mi chiese.
Risposi di no.
“Fidanzato?” Insistette.
“Non voglio parlare…”, gli risposi con sguardo di circostanza.
“Mi dispiace… non volevo disturbare… scusami, so che sono fatti personali”.
Mi confortò la sua preoccupazione.
“Non c’è problema Bojan, non ti preoccupare”.
Guardandolo mi resi conto che in quel momento avevamo qualche cosa in comune: eravamo tutti nomadi dei nostri sentimenti.
La festicciola si interruppe, la musica finì, quella gente sparì in un baleno inghiottita dall’oscurità e dalla nebbia, lo spiazzo era ormai deserto, solo io e quel ragazzo. Mi guardò con occhi interrogativi e mi abbracciò.
“Grazie dottore… grazie per quello che hai fatto per la mia gente… torna presto”.
Sentii una lacrima scorrere sulla mia guancia.
“Certo che torno…”.

Immagine tratta dal webPubblicità

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