La libertà non è qualcosa che si possiede come una dote o una proprietà, poiché invece coincide con una esperienza che si vive.
Una delle più clamorose manifestazioni dell’ipocrisia delle sedicenti democrazie liberali è che sono molto liberali e poco democratiche: non conta l’autonomia di ciascuno bensì la forza (economica) degli oligarchi di regime in virtù della quale possono comprare più media, più voti – possono corrompere e minacciare più di altri. Non è vero che nelle cosiddette democrazie liberali esista una libertà frutto esclusivo di lotte e di conquiste già avvenute.
È vero invece che è concessa una libertà apparente soltanto nella misura in cui questa non giunge a contestare da vicino il potere del tiranno.
La libertà si nutre della consapevolezza che, nonostante ogni evidenza contraria, un altro mondo è possibile. La libertà non è una realtà posta all’interno dei soggetti, benché essa debba nascere necessariamente nella mente degli uomini, ma si rivela come gesto di contestazione dell’esistente. In questo senso, la libertà è sempre eversiva.
La libertà è un fremito esistenziale, un disagio, un desiderio che non trova appagamento nell’esistente. La libertà è il coraggio di fare valere tale disagio contro tutti coloro che gridano allo scandalo.
Essa è quindi rischiosa, poiché il suo destino è la lotta contro il conformismo e l’omologazione su cui è fondata qualsiasi comunità umana. La libertà non è priva di ambiguità poiché si nutre – dentro profondità inaccessibili – “anche” di spettri del passato e di azioni esemplari di altri che ci hanno preceduto nella storia.
L’impresa più grande che possa compiere un uomo è quella di tradurre in un gesto riconoscibile il novum che sente dentro, con la speranza che tale gesto di rottura diventi fondatore di nuova storia.
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