L’intuizione di una dimensione eterna dell’uomo

DI MARINA AGOSTINACCHIO

Mi capitò anni fa di imbattermi nei quadri di Lucian Freud, nipote di Sigmund Freud, “il pittore che ha saputo raccontare la nostra imperfezione”, oltre ogni realismo. Facendo cadere ogni barriera su profili composti e idealizzanti, i suoi personaggi sbalzano allucinati, quasi presentandosi all’osservatore nella sua reale natura, quella che la società costringe a edulcorare con maschere confezionate all’occorrenza.

La difformità dei tratti dei volti dei modelli di Freud, l’espressione degli occhi, le linee delle vene, della pelle, appaiono cordami che si aggrappano all’osservatore e che lo interrogano profondamente.

Volti fissi davanti alla mano dell’artista, volti reclinati, corpi piegati, abbracciati, persino la ragazza che potrebbe essere sognante, del sogno perde le sfumature, divenendo liquida espressione di inquietudine.

Freud mi richiama alla mente l’idea della fine. Perché si muore, dove finiscono i morti, se si possono rincontrare, vivere sapendo di dover morire, sono domande a cui prima o poi nessuno sfugge.

Ricordo che il mio incontro con l’oltre avvenne da bambina, quando nel “castello” del nonno, a Trani, giocando con mia sorella e mia cugina, vedemmo la manipola di una porta girare senza che dall’altra parte ci fosse nessuno.

E, sì, ci dicevamo, erano i fantasmi. Persone vissute prima che i nonni comprassero l’enorme casa che tornavano per chissà quale vendetta o necessità di dovere terminare un compito voluto dall’alto.

Erano le fantasie di tre ragazzine che volevano darsi risposte a domande che non si osavano neppure formulare a voce spiegata. Vivevano in loro, silenti e pressanti.

Mi trovo a considerare che più avanti con gli anni, ci si accorge di cose che prima c’erano e poi scompaiono; riappaiono nel sogno e chiedono di essere ascoltate.

Leggo ” “l’Occidente ha costruito progressivamente uno scenario capace di eclissare la presenza della morte come evento concreto, per allestirne la rappresentazione all’interno di un immaginario funzionale alla rimozione collettiva” Cosa è stato allora dei fantasmi che popolavano l’immaginazione della bambina, quei fantasmi che ponevano l’accenno a un confronto tra un qui e un là, una passerella, un “limen tra visibile e invisibile”?

Eppure di quel confine mi parlava indirettamente mio padre narrandomi i miti, o leggendo nei libri di arte i riti funebri dei popoli antichi, le costruzioni architettoniche delle città dei morti. La vita con i suoi riti, la morte come prospettiva necessaria, divenivano nel mio pensiero il perenne divenire di ogni cosa. Non solo, sentivo che quel pensiero si dilatava in una elaborazione universale dell’umanità intera.

Il pensiero occidentale ha incominciato gradualmente a mettere in dubbio il racconto dei miti come aventi funzione confortante di fronte allo sgomento degli uomini nei riguardi della morte.

I Riti e le parole dedicati un tempo al momento del commiato ora hanno perso di significato e si caricano di solitudine e di silenzio.
E ciò in virtù del concetto di morte su cui si stende l’occhio critico e disilluso di chi dichiara che “se qualcosa è creabile e annientabile” e che non prevede il ricorso a un Dio per spiegare il mondo.

Crolla, pertanto anche la convinzione di sapere che cosa ci aspetti dopo la morte, perché l’uomo, abbracciando l’idea del nulla, dell’annichilimento, del vuoto, ha perso il senso di un “oltre”, di un attraversamento del campo terreno verso un altro luogo.

Vivere nell’angoscia la fine è il segno distintivo delle nostre società occidentali. Il nulla spaventa, disorienta, depista.

L’uomo come essere calato in un’immanenza troverebbe una non dimensione pronta a inghiottirlo al termine del suo percorso terreno; mentre fino a un certo punto della nostra cultura vivevamo dell’idea che il dopo sarebbe stato una prosecuzione naturale del nostro essere sotto altra forma e altra dimensione.
Eppure nella nostra unità psichica e psicologica abbiamo l’intuizione di una dimensione eterna dell’uomo.

L’esperienza della morte, attraverso la fine dei nostri cari, permette di avere percezione di un corpo che è ha intrapreso un’altra direzione, dopo il suo ultimo respiro. Personalmente ho vissuto questa esperienza al cospetto della nonna paterna. Fu un momento di meditazione profonda la visione di una sagoma che più non aveva nulla di vitale ma che mi suggeriva un “oltre” nel suo essere immobile che pure aggregava in sé ricordi, visioni e sensazioni che certo non mi suggerivano l’idea né la convinzione di un nulla.

Tutto intorno ci informa di un niente verso cui saremmo diretti, mentre noi, pur essendo materia, avvertiamo altresì un’”ulteriorità”. Si tratta di una coscienza che, se consapevolizzata, ci permette di crescere autonomi di fronte a una società che ci vorrebbe diversi anche per tornaconto economico e ideologico.

Potremmo andare contro tendenza, essere sicuramente meno insidiati dall’angoscia della morte e della nostra fine.

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