Radio Story: quanto mancano oggi i disc jockey dell’epoca delle prime radio libere!

di Enzo Mauri (speaker radiofonico)

Alla presentazione dei palinsesti di Radio Rai avvenuta qualche giorno fa, Renzo Arbore ha espresso un concetto già ribadito di recente: “Nell’offerta (radiofonica) mancano tantissimo i discjockey, quelli che indicano la musica, consigliano, spronano all’ascolto e fanno scoprire le nuove tendenze. Insomma meno playlist programmate ma più personaggi speaker utili alla musica e fondamentali per la crescita degli ascolti e della conoscenza del nuovo che avanza, ma anche e soprattutto dell’eredità musicale che abbiamo”.

All’epoca delle prime radio libere, infatti, il concetto di playlist era pressoché inesistente, chi si trovava dietro il microfono sceglieva da sé la musica da trasmettere spesso portandosela da casa, conoscendola quindi alla perfezione. Le radio si presentavano come sorta di jukebox, dove il disc jockey programmava i dischi a lui più consoni, rendendo l’emittente di turno un contenitore di ogni genere musicale dal rock al soul, dal jazz alla disco music. In questo modo gli ascoltatori si affezionavano non solo allo stile di conduzione di ogni singola voce ma anche alla musica che essa trasmetteva, sicuri che in quella fascia oraria sarebbero andati in onda solo determinati dischi.
Negli anni in cui la maggior parte dei conduttori doveva barcamenarsi fra giradischi, cassettine e ogni tipo d’imprevisto, (internet apparteneva alla fantascienza), poteva capitare, come successe a me, d’essere chiamati all’ultimo momento per sostituire uno speaker malato, (ero facile da reperire perché abitavo vicino alla radio), arrivare trafelato pochi minuti prima della diretta e fare incetta al volo di una manciata di dischi non programmati dal conduttore precedente. In pratica la scaletta della trasmissione veniva improvvisata.
Anche in situazioni normali sceglievo nella discoteca della radio un pacco dischi, in genere lp secondo la disposizione d’animo del giorno, da modificare man mano in base alle scelte degli ascoltatori che telefonavano durante il programma. Il contatto con l’esterno era solo uno: il telefono, ogni tanto arrivavano delle lettere, l’ordine tassativo era soddisfare le richieste musicali anche nelle trasmissioni che non le prevedevano per mantenere alto l’audience.
Quanto a me, cercavo di instaurare un feeeling con gli ascoltatori, la cosiddetta empatia, tentando di interpretarne gli umori, spesso riuscendo nell’intento. Poi poteva capitare che ricevessi dalla medesima persona per due volte di seguito la richiesta dello stesso brano da suonare ad alto volume durante una festa a casa sua e facessi presente che quella era una radio, non un jukebox e forse sarebbe stato meglio che il disco se lo fosse comprato!
Col passare del tempo le case discografiche, si accorsero di quell’importante strumento promozionale e iniziarono a fornire dischi gratuitamente, vincolando la radio di turno a trasmetterli ciclicamente, cominciò quindi a farsi strada il concetto di playlist. Radio Milano International, ad esempio, adottò nei primi anni ’80 la 70 Up, composta da 70 brani secondo lo stile americano. Per molti disc jockey fu un vero shock, abituati com’erano a scegliersi i dischi da soli.
Anche Radio Luna Roma applicò una playlist rock and soul, in seguito solo rock, di soli 50 brani. Tutto il giorno andavano in onda solo quelli, una scelta avveniristica in ambito locale che molti non compresero ma che distinse l’emittente nel panorama sempre più omologato che andava delineandosi.
Se prima, infatti, era indispensabile per ogni conduttore informarsi sulle tendenze musicali del momento, con l’avvento delle playlist, serie di dischi decisi da altri, programmati con diverse rotazioni in strutture vincolate da logiche commerciali, il concetto di disc jockey fine conoscitore di musica andò pian piano scemando.
D’altro canto senza l’onere (ma soprattutto l’onore) di redigere le scalette, oggi il conduttore di turno è investito di maggiore responsabilità perché deve darsi un gran da fare a intrattenere gli ascoltatori senza cadere nei soliti luoghi comuni, senza dare l’idea d’essere lì solo per timbrare il cartellino, difatti non tutti riescono.
Fare radio significa dedicarsi con passione, se non esprimi più nulla di nuovo, alla lunga l’ascoltatore se ne accorge.
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