Mi segnavi la croce portandomi la manina inesperta sulla fronte, sul petto, sulle spalle. Mi sembrava un gesto adulto. Troppo da portare addosso per una bambina. Su di te diventava un gesto rapido, impreciso, confidenziale.
Ti sentivo farfugliare preghiere veloci, in dialetto, senza troppi convenevoli. Per familiarità. Mi ingolosiva questa tua appartenenza. Mi facevo grande misurata vicino al tuo odore di sugo e di resina. Fronte dritta e rumorosa d’affanni, guance ammaccate da fame antica, occhi calabroni.
Eri diversa dalle altre comari inchiocciolate dentro le gobbe annerite a lutto, piccole nicchie carnose. Guardavo le tue scarpe logore su cui colava la consistenza liquida del sole, filamentosa, vermiglia, biforata. Nel crepuscolo estivo quel vanto purpureo si gonfiava a poco a poco in una luce blu fatta vapore, pulviscolo, malinconia.
Perché è così che fa sempre la natura. Si fa gonfia di tutto il tempo appreso scoriandolandolo in un ultimo scoppio di colori per un inchino fermentato e vigoroso. Il tempo del limite è un tempo di fracasso, è autunno incendiato, è crepuscolo paonazzo. E poi inverno. E poi buio.
Una preparazione alla morte in gran trionfo come fece nonna spogliandosi a poco a poco di tutto, di oggetti e di carne, di denti e di pelle, per far posto a un sorriso più largo.
Immagine tratta dal web
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