Alberto Savino, Souvenir d’enfance à Athénes

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea De Chirico, viene quasi sempre nominato in rapporto alla parentela col più celebre fratello Giorgio, circostanza che peraltro non gli rende il dovuto merito, essendo egli indubbiamente a questi molto legato, anche dal punto di vista artistico, eppure dotato di una forte e singolare personalità, meritevole di essere sottolineata.

La decisiva assonanza presente tra i due, determinata da proficui e continui scambi di opinioni e idee, non ne intacca l’affermazione individuale: Vittorio Sgarbi, nei suoi libri Lezioni private, primo e secondo volume, li definisce I Dioscuri, tra l’altro ricordando l’importante presenza di Valentino Bompiani proprio accanto allo stesso Savinio.

Valentino Bompiani, nelle parole del critico d’arte ferrarese, il più grande editore del secolo, che risulta tuttavia riduttivo limitare, nella sua qualifica, a editore: inventore, creatore e fondatore dell’omonima casa editrice, nonché ricercatore di talenti, è il nome di un uomo che ha pensato l’editoria, e trova nelle sue creature – Brancati, Moravia e lo stesso Savinio – il compimento della propria straordinaria ricerca.

Sì, poiché Alberto Savinio, in ossequio alla mentalità parigina surrealista dell’epoca, non resta confinato all’ambito pittorico, al contrario affermando senza indugi le proprie, indiscutibili caratteristiche di artista, letterato e scrittore.

Nelle sue opere, la prova di un’inventiva, sotto certi aspetti, più fervida e vivida anche di quella del fratello, contraddistinta da grandi passioni in grado di sovrastare alcune idee, almeno all’apparenza, più rigide e fredde.

Le sue invenzioni surrealiste, assurgendo a dimensioni oniriche, mostrano un lato vigorosamente latore di audaci premonizioni, le cui preminenti tematiche difficilmente si discostano dai principi ispiratori di eclettici sogni.

Renato Barilli ne ricorda, agli esordi, la iniziale accettazione di un ruolo diviso e differente da quello del fratello, probabilmente in parte dovuto alla condizione di secondogenito, tanto da dedicarsi appunto ad arti non direttamente coinvolte nell’ambito di quelle investite da Giorgio, anche se, nel 1926, quando decide di cimentarsi in pittura, prima pare accettare quella sorta di continuità ideale che ne determina anche profondi segni distintivi di riconoscibilità, poi però lascia spazio a quella che viene definita una riserva di energie intatte, e prorompe attraverso doti incorrotte e genuine, che davvero poco hanno a che fare con quell’accademismo che il fratello preferisce, invece, assecondare.

L’impressione è che Savinio, in questa splendida analisi del docente bolognese, si ritrovi a raccogliere l’eredità dello spostamento e della condensazione in un momento in cui Giorgio appare più orientato verso altri lidi, tali da determinare quasi un non ricordo di tali precedenti peculiarità: è il motivo per cui nelle sue opere compaiono curiose teste di animali fantastici e surreali, pur senza disdegnare contesti ben più maestosi ed imponenti, nella strana commistione di un universo culturale non sempre agevole ad essere compreso, disordinatamente enigmatico di simboli ironici e mitologici, e al contempo compaiono figure apparentemente più semplici, come nel caso di Autunno, in realtà molto più complesse.

Vanitas caravaggesche commiste all’ordinaria caducità di frutta e verdura, fanno la loro comparsa ammonitrice e introspettiva, in attesa di essere riscoperte in una dimensione ben lungi dall’essere superficiale.

Allo stesso modo, i ricordi d’infanzia, generalmente riconducibili ad una età vagamente spensierata, assurgono ad un punto di vista privilegiato che non tarda ad assumere i contorni del dramma, con l’immagine di Souvenir d’enfance à Athènes, ideale cornucopia irriverente e capovolta, attraverso cui l’autore rievoca una realtà di trastullo privilegiato, la cui costante presenza vitale nel corso dell’umana esistenza non esita, tuttavia, a riportarlo ad una dimensione onirico-nostalgica.

‘…Seduto io nel mezzo della camera dei giochi, quanto più vasto e ricco diventava il mondo che inquadravano le due finestre!’. Savinio condensa in Tragedia dell’infanzia, il libro che pubblica nel 1937, anche se la genesi risale a quasi due decenni prima, la propria percezione di un mondo diverso e surreale, in cui la consapevolezza di una realtà adulta si mescola alla dimensione volontariamente giocosa di un universo artificiosamente fiabesco.

Un gioco che esiste, ma non convince: osservato dal fanciullo Alberto, potenziale adulto, in guisa di incombente oppressione della realtà, che accantona quel coacervo di elementi disordinatamente ammucchiati per scorgere ciò che al di là appare ma ancora non si rivela.

E se qualcuno l’ha volutamente posto in quell’apparente Paese dei Balocchi, forse relegato verosimilmente ad una soffitta, egli rimane conscio della labile, artefatta ricostruzione di una realtà inesistente.

Così simile ad un ipotetico Capitano Nemo al comando del suo Nautilus, senza una particolare fretta di emergere, ma profondamente cosciente della mancanza di una via di fuga alternativa…

Alberto Savino (1891-1952), Souvenir d’enfance à Athénes, 1930 c., olio su tela, 58×63 cm., Roma – Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Immagine: web

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