Damien Hirst, The physical impossibility of death in the mind of someone living

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

Si può celebrare la vita utilizzando la morte? Secondo l’artista inglese Damien Hirst, sì.

L’opera che propone nel 1991, L’impossibilità della morte nella mentalità di un essere vivente, meglio nota come Lo squalo, nasce da una serie di esperienze, la principale risalente ad una visita all’obitorio di Leeds, quando Hirst, appena sedicenne, rimane particolarmente colpito dall’idea della fragilità della vita ed inizia ad elaborare un proprio percorso personale che lo porterà a diventare uno degli autori più influenti e richiesti della contemporaneità.

Hirst nasce, artisticamente parlando, verso la fine degli anni Ottanta, quando insieme ad un gruppo di coetanei, studenti del medesimo istituto artistico, il Goldsmith College, organizza una mostra in un vecchio magazzino.
Consapevoli, forse nemmeno troppo, di muoversi in un contesto di fondamentale arretratezza.

In Inghilterra, musica e arte proporranno innovazioni in tempi sfalsati – i ragazzi suscitano l’attenzione di alcuni personaggi piuttosto in vista dell’epoca, tra i quali il direttore della Tate Modern Gallery e il collezionista Charles Saatchi: quest’ultimo, oltre ad acquistare praticamente in blocco le opere proposte, inizierà un proficuo percorso collaborativo proprio con Hirst, eccellente sodalizio che si interromperà solo molti anni più tardi e dopo una serie importante di notevoli successi.

Per quanto riguarda Lo squalo, opera che ne decreterà fama e successo economico ma tuttora non smette di provocare discussioni, Hirst ha le idee estremamente chiare: ciò che vuole, ciò che desidera esporre è uno squalo.

Non una riproduzione o un’immagine, ma proprio l’animale squalo che ottiene pagando la considerevole cifra di seimila dollari ad un cacciatore di squali australiano – duemila saranno destinati alla spedizione – affinché gli procuri un esemplare di squalo tigre.

Lungo approssimativamente quattro metri, lo squalo opportunamente trattato e immerso in formaldeide – anche questo passaggio comporterà non pochi problemi: un iniziale dosaggio sbagliato ne comporterà la sostituzione – viene collocato in una teca di ferro smaltato ed esposto.

Un’immagine minimalista, potente, simbolica, che non può non provocare reazioni, anche sdegnate, poiché senza mezzi termini, è un dato di fatto: mette in scena la morte.

Una morte sospesa tra constatazione e spettacolarizzazione, al cospetto della quale lo spettatore si ritrova spaesato e sconvolto, non meno di quanto dovrebbe accadere tra gli pseudo rosoni gotici creati con migliaia di farfalle multicolori, anche se in tal caso il cromatico impatto di una suggestione esteticamente impeccabile tende a porre in secondo piano gli elementi costitutivi dell’opera.

Lo squalo – grigio, immobile, plastico – scolpito da una natura che ne aveva prevista ben altra funzione, mostra implacabile il risoluto effetto di una imposta fissità che tuttavia non cessa di trasmetterne l’energia; una potenza inesorabile e insopprimibile, che conquista l’immortalità e consacra l’artista in veste di nuovo creatore, latore di una seconda possibilità intervenuta nell’incertezza della prima.

Hirst intende descrivere una sensazione, e sceglie lo squalo nella sua dimensione di animale terrificante, protagonista di un mondo tendenzialmente sconosciuto, inoltre cogliendone la straordinaria ambiguità in grado di farlo apparire morto in vita, o vivo anche quando non lo è più…

‘Mi è stato insegnato ad affrontare ciò che non posso evitare. La morte è una di quelle cose. […]
Il fatto che i fiori non durino per sempre è ciò che li rende belli – Damien Hirst

Damien Hirst, The physical impossibility of death in the mind of someone living, 1991, squalo tigre, vetro, acciaio, formaldeide, Collezione privata
Immagine: web

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