Deepa Anappara, “La pattuglia dei bambini”

DI MARIO MESSINA

L’ India presenta una polarizzazione della ricchezza che ha pochi eguali nel mondo.
Narrare l’India vuole dire, pertanto, inevitabilmente, assumere un punto di vista.

Un angolo di osservazione che, per tali ragioni, non potrà mai essere neutrale.
Possiamo, così, avere un approccio di tipo “coloniale” proprio degli scrittori inglesi (si pensi a Kipling o a Forster) interessati a tratteggiare i caratteri esotici o misticheggianti di un ex territorio del Commonwealth.

Così come possiamo, invece, godere del punto di vista “indigeno” di chi sente la necessità di descrivere le conquiste e le vicissitudini delle donne delle caste medio-alte indiane come avvenuto di recente con Sujata Massey in “le vedove di malabar hill” (ed. Neri Pozza).

La prospettiva scelta, invece, nel nostro caso, dalla scrittrice Deepa Anappara è quella degli ultimi fra gli ultimi.
In una piramide sociale fortemente schiacciata e con una base molto ampia la scrittrice sceglie, infatti,
di narrare le vicende attraverso gli occhi di un bambino di nove anni.

Il piccolo abitante di un basti, una bidonville, privo ancora di quelle sovrastrutture mentali che sono proprie degli adulti e che ne inquinano ogni ragionamento.

Il protagonista diviene, così, un attento osservatore della realtà circostante commentando quanto succede intorno a lui con purezza e genuinità.

Ratificando una realtà che trova il suo unico perché nelle decisioni e nei ragionamenti degli adulti.
Anche la sintassi e la costruzione della frase riflettono con coerenza questa prospettiva trasmettendo una apparente semplicità e facendo, altresì, ricorso a quei vezzeggiativi propri della lingua parlata.

Dal punto di vista della trama il libro ruota attorno alla scomparsa, in un tempo abbastanza ravvicinato, di una serie di ragazzini in circostanze misteriose.

L’abilità della scrittrice, attraverso i suoi frequenti sospesi, lascia per un attimo nel lettore la speranza che si possa trattare forse solo di spontanei allontanamenti. Ma con l’incedere degli eventi così non appare.
Non vi sono mai certezze assolute essendo l’ opacità la vera cifra della realtà.

E non solo perché lo smog scandisce le giornate in ogni singola pagina del libro. Ma, soprattutto, per volontà di forze di polizia corrotte e di capi tribù interessati solo a gestire in maniera mafiosa e razzista i rapporti tra indù e mussulmani.

La scrittrice confida, così, molto sul non detto. Non è mai tranchant. Non spettacolarizza gli eventi ne gioca sul sensazionalismo.

Non vuole trarre alcun utile da particolari macabri e truculenti.
Presenta quella onestà letteraria che non troviamo in coloro che, invece, auspicano il clamore inserendo particolari scabrosi o sconvolgenti.

Mi viene in mente, a tal proposito, il recente “si scioglie” della belga Lize Spit (ed. E/O) dalla struttura poderosa quanto dalla insistente volontà di insistere su descrizioni fin troppo accurate di certe scene di violenza.

Avendo dei bambini scomparsi per protagonisti il gioco sarebbe stato ben facile. E il voyeurismo è il rischio, concreto, in cui facilmente, infatti, incorrono molti scrittori nell’errata convinzione di voler fare ad ogni costo letteratura di denuncia.

Non deve, pertanto, sorprenderci che concluderemo la lettura di questo libro non conoscendo il reale destino di questi bambini. Sappiamo, però, cosa è davvero l’India e a cosa espone la sua estrema e diffusa povertà.

Ce lo hanno mostrato pure rinomati film quali “the millionaire” o “lion”.
Non abbiamo bisogno di lucrarci ulteriormente con le parole.

Immagine tratta dal web

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