Estati a San Mattia

DI ORNELLA SUCCO

 

Le mie estati alla borgata Giorda Superiore, che tutti chiamavamo semplicemente San Mattia, iniziarono intorno al 1960 e terminarono nel 1964.

Cinque brevi stagioni che pure racchiudono, per me, tutta l’essenza di un’infanzia felice e libera, a contatto con la natura e con la sua abbagliante bellezza.

Resta inoltre il ricordo di anni in cui, alle persone, bastava poco per divertirsi: un terrazzo illuminato di sera, amici con cui giocare a carte oppure a bocce, un giradischi appoggiato su un davanzale per trasformare un cortile in una sala da ballo.

I miei genitori, mio fratello, ed io, arrivammo a San Mattia perché il fratello di mia madre aveva preso in affitto una stanza, una grande stanza affacciata su di un vasto terrazzo e sovrastata da un pagliaio, posta proprio all’ingresso della stradina interna alla borgata.

Ricordo che sul terrazzo c’era l’unica fonte di acqua corrente, un semplice tubo che disponeva di un minuscolo rubinetto a chiave; al posto del lavandino c’era un vecchio mastello di legno che scaricava direttamente su di un piccolo cortile.

Poi il signor Espedito, che credo fosse il padrone di casa, realizzò una tubatura migliore e mio zio, che era piastrellista, montò un lavandino sulla parete esterna della vecchia casa: da quel momento ci pareva di avere ogni confort, anche se ancora non c’era un gabinetto interno e dovevamo, a turno, andare ad utilizzarne uno che si trovava sul retro della casa dei signori Bertani.

Nella stanza, a parte l’angolo dove si trovavano un vecchio tavolo ed un fornello a gas, indispensabili per cucinare cibi caldi, non c’erano altro che letti; infatti ci dormivamo sempre almeno in sette: i miei genitori, mio fratello, mio zio i miei due cugini Bruna e Piero, ed io.

Al gruppo si aggiungevano talvolta amici di mio fratello o amici dei miei genitori: la sera andare a dormire era una manovra degna della più rigorosa accademia militare, infatti una volta raggiunta la propria postazione diventava quasi impossibile spostarsi, per andare a bere o per altri occasionali bisogni, senza coinvolgere nello spostamento tutti gli occupanti degli altri letti.

Per questo motivo i giovani (ovvero mio fratello i miei cugini che inizialmente avevano un’età compresa tra i 15 e i 18 anni) avevano il “diritto” di dormire nei letti più vicini alla porta d’ingresso, mentre io e i miei genitori dividevamo un vecchio letto matrimoniale con un materasso di foglie che scricchiolava ad ogni movimento.

Tuttavia, non ricordo di aver mai avuto problemi ad addormentarmi: quando arrivava la sera ero stanchissima, perché di giorno non stavo ferma un momento.

 

Le mattine a San Mattia iniziavano con un rito: quello di andare a lavarsi la faccia nel ruscello che scorreva limpido ai piedi della borgata.

Mio padre ed io passavamo lì quasi un’ora, giocando con delle piccole barche che io appoggiavo sulla corrente in un punto più a monte e che egli raccoglieva veloce quando transitavano di fronte a lui qualche centinaio di metri più a valle.

Una volta, ricordo, ho insistito tanto per poter essere io quella che raccoglieva la barchetta e, naturalmente, fu una barca persa perché la corrente se la portò via e non riuscimmo più a raggiungerla.

Dopo, mentre mia madre risistemava la stanza, io accompagnavo mio padre, mio fratello, i miei cugini e i loro amici ai campi da bocce che si trovavano dall’altra parte della borgata, oltre la piccola cappella dedicata a San Mattia e a San Grato.

Lì, all’inizio, tutto era interessante: i grandi alberi di castagno dei quali mia cugina mi aveva insegnato a intrecciare le foglie per farne copricapi simili a quelli dei capi indiani nei film western, i cespugli di more sui quali i primi frutti cominciavano a diventare scuri, i piccoli fiori dei garofani certosini che raccoglievo in mazzi profumatissimi da regalare alla mamma.

Dopo la prima mezz’ora però mi annoiavo terribilmente e allora partivo in esplorazione … Nessuno si preoccupava perché a San Mattia non c’erano pericoli, qualche volta incontravo un’altra bambina o un altro bambino con i quali scambiavo due chiacchiere, altre volte entravo in casa dei signori Bertani che, se così si può dire, erano i nostri vicini di casa visto che la casa dove alloggiavamo noi era collegata alla loro da una scala in parte di pietra e in parte di legno che sbucava sull’ampio cortile di casa loro.

La signora Bertani era una persona affabile e dolcissima, mi offriva sempre acqua e anice e, talvolta, una “camamella” ovvero una caramella di zucchero, di quei “fruttini” rotondi a forma di pallina che si scioglievano letteralmente in bocca.

Suo marito mi incuteva un po’ di timore: passava ore e ore disteso su una sedia sdraio a prendere metodicamente il sole per abbronzarsi e sopportava poco la mia invadenza e la mia disinvoltura.

Ricordo che un giorno, così per fare qualcosa, segnarono su un muro bianco della loro casa delle tacche corrispondenti alla statura di mio fratello, dei miei cugini, delle figlie dei signori Bertani e del fidanzato della loro figlia maggiore.

Poi il signor Bertani, che tutti chiamavano “professore” perché insegnava all’Istituto Tecnico Sommeiller di Torino, volle segnare anche la mia statura e di fianco scrisse: “gagna malefica” ovvero “bambina pestifera” ed io mi offesi molto.

Curioso, perché circa dodici anni dopo tornai a trovare i signori Bertani in compagnia di mio zio e quando vidi che la scritta c’era ancora devo dire che mi commossi profondamente.

Delle estati più lontane nel tempo ho pochissimi ricordi, il primo molto nitido risale al giorno in cui la radio diede la notizia della morte di Marylin Monroe, nell’agosto del 1962.

La notizia parve a mia madre così importante che mi mandò ad annunciarla a mio padre e a fratello e cugini che stavano, come sempre, al gioco da bocce…

Ma le estati a San Mattia erano soprattutto fatte di due momenti bellissimi: i pranzi e le cene all’aperto, sul terrazzo interamente coperto dalla sporgenza del fienile, dove mangiavamo intorno ad un grande tavolo anche quando pioveva.

La libertà, ripeto, era assoluta: da quando arrivavamo io giravo solo in pantaloni corti e casacchette, ai piedi ciabatte o “paperine” mentre mio fratello e i miei cugini portavano delle specie di antenate delle espadrillas, scarpe di tela blu con la suola di corda che si sfasciavano regolarmente vista la loro abitudine di tenerle ai piedi anche per giocare a pallone nel piccolissimo cortile sotto casa.

Prima di sera accompagnavo mia madre dalla signora Pia, che ricordo bellissima e giovane con i lunghi capelli scuri e gli occhi grandi, a prendere il latte appena munto con il classico baracchino di metallo.

Andare a prendere il latte mi piaceva molto, ancor di più mi piaceva vedere il suocero della signora Pia che riportava a casa le mucche dal pascolo: seduta su di una grande pietra che si trovava nel cortile dei signori Bertani, lo vedevo arrivare e mi pareva di stare appollaiata su di un’alta rupe.

Avrei scoperto anni dopo che si trattava solo di un sasso di modeste dimensioni, ma a quei tempi mi sembrava una montagna vera e propria.

La sera i giovani si trovavano spesso nel cortile di fronte alla casa dei signori Bertani, dove il giradischi portatile di mio fratello veniva appoggiato sul davanzale interno di una casa mentre, all’esterno, i ragazzi si scatenavano nei balli tipici del momento: il twist, il cha-cha-cha , l’hully-gully.

Ogni tanto mio padre e il professor Bertani mettevano su un valzer o un tango e facevano ballare le ragazze per suscitare invidia nei giovani, ma durava cinque minuti e poi il giradischi riprendeva a suonare “Con le pinne fucili ed occhiali” o “Tintarella di luna” piuttosto che “A Saint Tropez” o “Let’s twist again”.

I grandi invece (ed io, ohimè, unica bambina del gruppo), si davano appuntamento sul nostro terrazzo dove a volte finivano con il ritrovarsi anche venti persone, quasi tutti “villeggianti”, ma anche alcune persone originarie della borgata come il signor Espedito, suo nipote Pino con la moglie Iole e altri.

A volte giocavano a carte, ma per lo più parlavano, a volte raccontavano barzellette, a volte discutevano di politica: qualcuno portava una bottiglia di moscato e mio padre apriva una bottiglia di malvasia: le sere volavano via incredibilmente veloci e il giorno dopo c’erano sempre nuove avventure ad aspettarmi.

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