Film da vedere (o rivedere): ‘The Terminal’ di Steven Spielberg. Con Tom Hanks

di Luca Biscontini

The Terminal è un film del 2004 diretto da Steven Spielberg ed interpretato da Tom Hanks. È stato presentato, fuori concorso e come “evento speciale”, alla 61ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Il film è ispirato alla storia vera del rifugiato iraniano Mehran Karimi Nasseri: giunto nel 1988 all’aeroporto di Parigi Charles de Gaulle, dopo essersi visto rifiutare il visto di ingresso dal Regno Unito a seguito del furto del suo passaporto, le opportunità offerte dalle autorità francesi furono due: il rimpatrio o la permanenza in Francia. Mehran Karimi Nasseri ha vissuto nel terminale 1 dell’aeroporto della capitale francese sino ad Agosto 2006. Sembra che Steven Spielberg abbia versato all’iraniano circa 300 000 dollari per poter portare sulla scena la sua storia. Con Tom Hanks, Catherine Zeta-Jones, Stanley Tucci, Chi McBride, Diego Luna.

Trama
Viktor Navorski, proveniente dall’Europa dell’Est, si ritrova bloccato all’aeroporto JFK di New York perché a causa di un colpo di stato il suo Paese d’origine è stato cancellato. Ciò significa che il passaporto e i documenti dell’uomo non sono più validi. Senza un posto a cui fare ritorno, Viktor si sistema nel terminal dell’aeroporto, diventando amico delle persone che ci lavorano e innamorandosi di una hostess, Amelia Warren.

“Una storia individuale come paradigma di un intero sistema: è questo lo schema seguito dall’autore di The Terminal. È grazie al “corpo estraneo” Viktor Navorski che vengono poste in luce le contraddizioni dell’America di oggi, di un sistema che, come suggerisce il titolo, sembrerebbe esser davvero giunto al capolinea. Il meccanismo è molto semplice, ma di sicura efficacia: si prende un elemento che possa essere difficilmente riconducibile, o che per qualche ragione tenda a entrare in contrasto con l’insieme in cui si trova, e gli ingranaggi di questo insieme iniziano a mostrare l’usura.

Il terminal del film omonimo, interamente ricostruito in studio in cinque mesi di lavoro (a proposito: come fa Spielberg a essere ancora amico di Lucas dopo gli scempi digitali di Star Wars?), è evidentemente il microcosmo dentro al quale l’autore organizza la sua visione contemporanea. La visione di un mondo che si è globalizzato solo in un senso: se l’America possiede tutti gli strumenti (tecnologici, economici, militari) per recarsi con disinvoltura in ogni angolo del pianeta, lo stesso non vale per coloro che da quegli angoli provengono (Viktor sa appena due parole di inglese, prese dalla guida di New York e appiccicate in testa alla bell’e meglio). La visione di un mondo che vive asserragliato in una dimensione fredda e impersonale (come sono, almeno nella loro esteriorità architettonica, le strutture di servizio negli aeroporti) in cui si può trovare tutto tranne la felicità”.
(Cineforum, 4 Ottobre 2017)

Luca Biscontini per MondoSpettacolo

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