Giorgio De Chirico, Donne romane

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

Se la Metafisica di De Chirico, la cui durata risulta tuttavia piuttosto breve, secondo un canone, nell’ambito delle avanguardie, abbastanza comune, matura in circostanze fortemente legate al particolare periodo storico attraversato.

Siamo nel 1915, e Giorgio De Chirico, assieme al fratello Alberto Savinio, come tutti gli altri artisti cosmopoliti è costretto, causa conflitto bellico, a riguadagnare la propria città d’origine, nel caso specifico Ferrara; ricoverato presso il locale ospedale psichiatrico militare, in cui rimane sotto osservazione in eventuale attesa di ottenere l’esonero, dove incontra il reduce Carlo Carrà, a sua volta profondamente provato – è altrettanto innegabile come le sue rivelazioni artistiche seguenti attraversino periodi di variata espressività.

Per riprendere una metafora cara a Renato Barilli, De Chirico si comporta come un artista impegnato nella visita di un museo, il quale si appresta a visitare le diverse stanze spaziando nelle epoche e decidendo di volta in volta cosa recepire ed esternare.

È il motivo per cui a partire dagli anni Venti, nonostante l’importante attenzione riservata alla Metafisica dagli ambienti dedicati dell’epoca, confermata dalla pregevole risonanza della trattazione sulla prestigiosa rivista Valori plastici, De Chirico matura un profondo cambiamento, non esattamente rinnegando ma tutto sommato rivedendo e riprendendo, a proposito di quei concetti in grado di mettere a tacere evoluzioni più morbide sacrificate in nome di una casta linearità: i metafisici italiani, specialmente dopo il 1925, direzionano i propri istinti verso una, nuova ma non troppo, ripresa delle forme tradizionali, non scevra di una palese tendenza classica.

Ciò che fino a quel momento, attraverso la decontestualizzazione di oggetti apparentemente non idonei a trovarsi nel medesimo luogo, aveva dominato la visionaria tendenza ad una dimensione filosoficamente onirica, lentamente si evolve in qualcosa di differente e meno tranciante.

Donne romane, realizzato nel 1926, rappresenta meglio di altri dipinti il nuovo orientamento transitivo verso qualcosa in procinto di essere atteso e riconquistato.

Se non muta il soggetto – le presenze in questione rimangono comunque legate a motivi tipici della pittura metafisica – ne cambiano prospettive e relazioni, con l’autore al cospetto di un dibattito introspettivo che muove dalla plasticità immobile delle due enormi figure ad un processo sembiante di recupero rispetto a quelle voluttuose immagini predominate da linee curve che egli, da sempre grande estimatore di Rubens, mai aveva dimenticato.

Sospese tra finzione e realtà, con volti scabri e lacunosi denuncianti una sottesa assenza, permettono all’osservatore, ma anche allo stesso creatore, di percorrere un ulteriore tratto in direzione sia di quanto, comunque, in compagnia del Dadaismo, porrà le basi del Surrealismo, sia di una negazione del rinnegare, consapevole di una storia umana antecedente e necessaria, che mai si rifiuta, e senza problemi o indugi si torna a ricordare…

Giorgio De Chirico (1888-1978), Donne romane, 1926, olio su tela, 116×89 cm., Mosca – Puškin State Museum of Fine Arts
Immagine: web

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