DI MARIO MESSINA
Hans Fallada,
E adesso, pover’uomo?
Sellerio editore
Leggere Hans Fallada si rivela sempre una garanzia.
Dopo aver letto, infatti, il vibrante “Ognuno muore solo” ho deciso di immergermi nuovamente nelle atmosfere familiari mirabilmente descritte nell’opera dal titolo “E adesso pover’ uomo?” e ambientate nella Germania degli anni Trenta.
Se nel primo libro da me citato l’esperienza nazista ha già raggiunto il suo apice, nel secondo caso è, invece, solamente agli albori.
Una bomba in procinto di esplodere.
Il testo non ha, però, una coloritura marcatamente politica. Tutt’ altro.
La dimensione eletta rimane quella del microcosmo familiare.
Ma con la sublime capacità di diventare paradigmatica.
Una sfumata e delicata lezione di sociologia.
L’ intera opera è attraversata, infatti, da una storia d’amore coronata dall’arrivo di un bambino.
Questo idillio viene però sporcato dalle difficoltà economiche che corrono parallele senza mai dare tregua ai due protagonisti.
Neanche il momento della lieta scoperta sfugge a questa ansia da “bilancio familiare”: <<Pinneberg resta senza fiato. Come se gli avessero dato una botta in testa. […] Dottore, io guadagno centottanta marchi al mese!>> (pag.36).
Il protagonista, però, è un impiegato.
Un “colletto duro” come viene definito dagli operai. Un commesso che non sfugge ai cliché.
Come lo apostrofa il suocero socialista: <<perché voi fate delle ore di straordinario non retribuite; perché vi fate pagare meno della tariffa contrattuale, non scioperate mai e state sempre dalla parte dei crumiri…>>.
Una verità che poteva essere vera, in realtà, fino a qualche anno prima.
Siamo nel ’32 e i disoccupati sono diventati sei milioni.
Pinneberg col suo lavoro ogni giorno sotto ricatto di qualche capetto intuisce che lui non è più cosi “diverso” e fortunato.
È uno di quei sei milioni di nuovi poveri.
La consapevolezza matura progressivamente.
Dapprima passeggiando al parco dove osserva masse di ex operai ormai disoccupati intenti a far nulla:
<<Solo questi sono i miei simili, questi qui. È vero che mi chiamano proletario dal colletto duro, ma è roba passeggera. […] oggi, soltanto oggi, ho ancora una paga, ma domani, oh, domani mi toccherà il sussidio…>> (pag. 222).
La frustata sarà, ovviamente, ancora più dolorosa dopo aver perso il lavoro:
<<Ma nel riflesso della vetrina c’ è un’ altra persona, una pallida larva, senza colletto, con un ulster consunto e i pantaloni sporchi di catrame. E ad un tratto Pinneberg capisce tutto, al cospetto di questo poliziotto, di questa gente perbene, di questa vetrina luccicante lui capisce che è tagliato fuori, che non appartiene a quel tipo di mondo, che lo si caccia via a ragione: è scivolato giù, finito a fondo, è spacciato. […] pane e lavoro sicuri: roba di una volta.
Farsi avanti e sperare: roba di una volta. La povertà non è soltanto miseria, la povertà è anche un reato, la povertà è un marchio, la povertà è sospetta>> (pag.545).
Il sistema non sapeva fornire ai tanti Pinneberg un aiuto.
Fornì, però, una facile soluzione.
Un capro espiatorio e un uomo forte.
Il ceto medio impoverito era adirato.
E, così, nel ’33, la Storia ebbe tragicamente inizio.
Immagine tratta dal web
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