La perfezione del cerchio di Giovanna Tama’

DI MARIO MESSINA

Giovanna Tamà,
La perfezione del cerchio.
Algra editore

Se volessi rappresentare graficamente le sensazioni che la lettura di questo testo mi ha trasmesso non potrei non pensare all’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci.

Lo stesso titolo me ne suggerisce quasi la possibilità.
L’ uomo al centro.
Assoluto protagonista delle vicende narrate.
“La perfezione del cerchio” è un romanzo polifonico.

Una saga familiare che vede coinvolti molteplici personaggi.
Tutti caratterizzati da una spiccata individualità.
Spina dorsale del racconto è la famiglia Calatrazza.
Tre generazioni vissute a cavallo tra Otto e Novecento.

Un fiume in piena che non si esaurisce, però, solo in se stesso.
Si intreccia, infatti, ad altri corsi d’acqua finendo, così, per lambire territori assai vasti.
Catania è, infatti, solo apparentemente il luogo in cui le vicende si snodano.
Il respiro ben più ampio dell’ opera fa sì che echi si avvertano in Inghilterra come ad Alessandria d’Egitto.
A Parigi come a Genova.

I fatti narrati rimandano, quasi sempre, a dinamiche di coppia.
Con dissidi interiori laceranti e corrosivi.
Con passioni forti ed intense.
L’ assoluta centralità dell’ agire individuale fa sì, così, che agli occhi del sottoscritto, il romanzo assuma una veste quasi illuminista.

Paradossalmente, si potrebbe dire.
La struttura familiare tratteggiata è, infatti, fortemente patriarcale con venature notevolmente conservatrici.
Ma è la cappa religiosa a risultare del tutto assente.
Certi schemi sono introiettati per ragioni culturali e le stesse donne di volta in volta protagoniste, agiscono fuori dagli schemi o, comunque, ben lontane dai dettami religiosi.

Non vi sono sorelle chiamate a diventar suore per il buon nome della famiglia.
O preti che elargiscono confessioni ed assoluzioni.
Tutto assume un carattere fortemente laico e secolarizzato.
Un elemento, a mio avviso, fortemente innovativo data l’ambientazione storico-temporale del testo.

“Storia di una capinera” di Verga sarebbe la scenografia che ci si potrebbe aspettare. Invece così non è.
Tre generazioni di uomini e donne che rispondono solo a “calcoli” propri.
Legati al proprio vissuto e al proprio bagaglio genetico al di fuori di qualunque approccio fideistico.
Tutto risponde ad una etica personale che non scade mai in una morale confessionale.

Lo devo al cognome mio e non a dio, si potrebbe dire.
Ambientazione principale del racconto è, come già accennato, la città di Catania.
Che viene dipinta nei suoi tratti essenziali con nitidezza.
Nel suo mondo, esiguo, “di sopra”: <<La città, pur non essendo capitale dell’ isola, annoverava una nutrita schiera di aristocratici, per buona parte tra di loro imparentati, un cospicuo numero di personalità nei vari ambiti della scienza e del diritto, alcuni scrittori, qualche musicista e una mezza dozzina di borghesi emergenti, tutti accomunati dalla necessità dell’apparire>>(pag. 110).

Nella sua dimensione, maggioritaria, “di sotto”: <<una folla di poveri bivaccava sulle banchine, ognuno con la sua valigia di cartone e pacchi tenuti insieme dallo spago, ognuno con la speranza di un lavoro migliore al nord […]>> (pag.115).
Nella dicotomia città-campagna che si viene ad instaurare lungo il racconto, l’autrice, in più di una occasione, fa pendere l’ago della bilancia, però, a favore della campagna.
<<In citta tutto era falsato, distorto, il dio che vi si adorava era il denaro>>(pag.278).
Si afferma, così, una visione bucolica di tipo, quasi, mistico.
Una realtà poco conflittuale e priva di sfumature di classe.

<<La campagna era semplice, autentica […]>>(pag.279).
Il protagonista è <<spettatore dell’allegria di gente semplice, che lavorava con fatica la terra e che rimaneva pulita ed onesta […]>>(pag. 278).
<<Stare a contatto coi contadini […] era tutt’altra cosa, c’ era saggezza in quella gente, la saggezza che viene dall’osservazione della natura, dal rispetto verso di essa>>(pag.278).
Di contro, quasi a voler smentire la tentazione del rifugio nel “paradiso perduto”, l’autrice attribuisce grande importanza alla dimensione del viaggio quale strumento in grado di allargare gli orizzonti. Si tratta, infatti, di una predisposizione che ritroviamo in più personaggi e di estrazione sociale assai diversa.

<<Il ragazzo doveva aprirsi la mente, conoscere altri luoghi, altri modi di vivere>>(pag.278), tanto per citare un passo a mò di esempio.
Per quanto riguarda, invece, la cifra stilistica del romanzo questo sembra godere di grande maturità. L’ autrice sembra maneggiare, infatti, con sicurezza il testo e la sua struttura.
Il racconto è denso, descrittivo, soprattutto a livello emozionale. La lunghezza dei periodi e la mole di virgole usate danno cadenza e ritmo senza compromettere l’ attenzione.

Un risultato non scontato perché la capacità di gestire lunghe frasi è propria di chi ha padronanza della lingua.
La stessa struttura rende movimentato il racconto.
I salti temporali e generazionali tra i capitoli permettono di andare oltre la banalità della mera successione cronologica. Risulta, talvolta, troppo lineare e scontato leggere di saghe familiari basate sulla meccanica successione degli eventi dal passato al presente.
In questo frangente ci troviamo, invece, di fronte ad un puzzle più che ad un domino.

E la sua forma, una volta ultimato, sarà quella del cerchio. Come il titolo recita.

Immagine tratta dal web

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