Mai dichiararsi sconfitti

DI GIOVANNI BOGANI

Bologna, tre di pomeriggio. Esco dalla Fiera. Devo andare al giornale al quale ho dato tanta parte della mia vita. La Sede Centrale, il Palazzo grande come una città. Quello in cui sono entrato, prima, soltanto una volta. Due bus, una trentina di fermate, un’ora e passa complessiva, ma ci arrivo.

La sede del giornale è grande, di cemento bianco. Sembra The Kingdom della serie tv di Lars von Trier, il grande ospedale. O forse assomiglia a tutti gli ospedali, a tutte le grandi fabbriche.

In questa qui fabbricano parole, immagini, titoli, quelle cose che chiamano “notizie”, una fotografia al mondo scattata ogni mattina. Una grande fabbrica, come quelle che si vedono in certi film italiani degli anni ’60, con dentro Ugo Tognazzi o Marcello Mastroianni, in camicia bianca, giacca e occhiali scuri.

La signora al gabbiotto dell’ingresso mi chiede un documento e telefona alla persona che devo vedere. È la persona che deve decidere del mio destino. Che deve tagliare i miei compensi. Che deve decidere quanto stringerò i denti nei prossimi anni.

La signora che deve decidere del mio destino ha la metà dei miei anni. Dall’ufficio, in un piano alto del grattacielo, si vedono le cime dei monti dell’Appennino. Di là da quelle montagne c’è casa mia, penso. E penso: come sono belle queste montagne. Come sono belle queste finestre. Come è bella la vita.

E penso: sono qui per perdere un altro pezzetto della mia dignità. Sono qui per perdere un altro po’ del valore che danno alle mie parole. Sono qui per offrire loro la gola. Devono tagliare. Come nel film “Tra le nuvole”, George Clooney che licenzia dipendenti che sono stati per trentacinque anni al servizio di una società.

George Clooney che ha già in mente le parole giuste, e cancella vite, costringe uomini in lacrime a portare via le scatole con le loro cose in pochi minuti, George Clooney che di lavoro toglie la dignità ad altri come lui.

Qui non è così, non è così brutale. Tolgono un pezzetto. Una piccola amputazione. Devi imparare, Giovannino, a fare con ancora meno. Adesso non vai al ristorante, non vai fuori la sera, vai al cinema perché ti fanno entrare gratis, compri i libri a un euro al mercatino del tuo amico, al supermercato compri sempre ciò che costa meno.

Hai imparato bene, forse se continui così neppure te ne accorgi, neppure ti accorgi che il confine dello stringere i denti è ancora più vicino. E a proposito di denti: non sei mai andato dal dentista a rifarli, quei denti brutti che hai. E non sei andato a comprarti un paio di scarpe da inverno, e ormai l’inverno è quasi finito. Che bello, l’inverno è quasi finito. Fuori dall’edificio, alle sei, c’è ancora un’aria dolce di quasi tepore.

La donna che taglia un po’ dei miei polmoni, un po’ della possibilità che ho di uscire la sera, di invitare qualcuno a cena fuori, di fare un viaggio senza preoccuparmi troppo di quanto ogni cosa costa, mi dice anche che sono una “eccellenza” del giornale.

Dice che legge i miei articoli, che le piacciono molto. Che non sono uguali agli altri. Racconta che ha studiato filosofia, forse avrebbe voluto studiare proprio il cinema. O la letteratura. Si emoziona quando le racconto che ho conosciuto Umberto Eco, che sono stato a cena con lui, che sono stato suo allievo e poi, per un gioco del destino, in qualche modo suo collega.

Non posso portarle rancore. Lei esegue gli ordini, e anzi sta cercando di farlo nel modo più indolore possibile. Vorrei ringraziarla per aver apprezzato le mie parole. E dirle che a volte ne trovo anche di migliori. Qualche volta si annidano nei miei libri, qualche volta mi vengono in mente, ma le ho già dimenticate.

Dev’essere nata più o meno quando io scrivevo il primo articolo. Ligabue dice “quando hai dato tutto devi andare, fare posto”. Magari non è ancora questo il momento, ma ci va vicino. O forse è solo un altro inizio.

Ad aspettare l’autobus, lì nel mezzo al nulla, come in quella scena di “Intrigo internazionale” di Hitchcock, dove Cary Grant aspetta all’incrocio in mezzo ai campi, c’è una ragazza. Le chiedo qual è l’autobus giusto per andare verso la stazione. Mi risponde, al suo posto, un ragazzo seduto sulla panchina. Ma lei mi guarda negli occhi, e non lascia che sia lui a informarmi.

Il ragazzo mi dice il numero di un autobus, lei un altro. Scelgo l’autobus che mi indica la ragazza. Dovesse anche portare a Grizzana Morandi, o a Monteacuto delle Alpi. O a Timbuctù.

Il bus arriva, è in ritardo, è stracolmo. Io non ho gli spiccioli giusti per il biglietto. Non riesco a muovermi, con lo zaino enorme. Non riesco a girarmi, per andare verso la macchinetta dei biglietti, per parlare con lei. Poi però mi aggiusto un po’. Ora le sono davanti.

Ha gli occhi marrone chiaro, un naso piccolo, all’insù. Occhi marroni che ti guardano, capelli lisci. Somiglia un po’ a Piperita Patty delle strisce di Charlie Brown.

Ha un cappotto che sembra quasi un vecchio loden, veste come se non desse importanza all’apparenza. Sembra un po’ Mariel Hemingway in “Manhattan” di Woody Allen. Le ragazze che piacevano a me, trent’anni fa. Sono già passati trent’anni, forse più, da quando mi innamoravo e potevo farlo. Adesso non posso più. Adesso non ne ho il diritto.

E parlo con lei, che non ha accento bolognese. Mi pare spagnola, forse per i colori del volto, chi lo sa. Fa uno stage nello stesso giornale per il quale io ho lavorato per una vita. Sta facendo l’università, ha una sorella a Londra che studia fotografia, o arte, e la sua famiglia vive in un piccolo paese sul Lago Maggiore.

Un paesino nel quale sono stato, una domenica, era bello il lago da guardare. Lei è contenta che conosca il luogo dal quale viene. Vorrebbe fare la giornalista, o studiare la letteratura comparata.

Ha in mano un libro di Italo Calvino, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Mi era piaciuto tanto, quando avevo la sua età. Mi parla di esami di Storia del cinema che non le sono piaciuti, le piantavano davanti dei fotogrammi di film e doveva dire da quali film provenivano, come in un quiz televisivo. Si confida con me, chissà perché.

Non ci rivedremo probabilmente mai più, ma in quei quattro chilometri di autobus mi ha raccontato gran parte della sua vita di ventenne. Tante vite fa, a Bologna, mi innamorai di una ragazza come lei, parlando di scrittori e di film, o di canzoni.

E fu l’amore più bruciante e profondo della mia vita, uno di quelli che non sono più scomparsi da me, che hanno lasciato le loro cicatrici, i loro segni per sempre. Ma adesso non posso più nemmeno ricordare com’ero, adesso devo scendere da questo autobus.

Non ho una famiglia, non ho figli, non ho obblighi, ho anche un biglietto flex: potrei offrirle un caffè, ascoltare ancora le sue storie, e tornare con l’ultimo treno. Ah, no: devo scrivere un articolo sugli Oscar, un articolo che non interessa a nessuno, sulle previsioni di chi vincerà i prossimi Oscar. L’hai vinto tu, l’Oscar, come miglior attrice non protagonista della mia vita, come miglior protagonista della tua.

Sembra sempre così normale, così una piccola cosa, quando si scende dall’autobus, come se dopo potessimo salirci di nuovo. Mi racconti, ultimo aneddoto prima della fermata, dei film che guardi alla Cineteca: i vecchi film di Fritz Lang, di Murnau. Proprio ieri notte ho visto un film di Lang che non conoscevo nemmeno io. Sarebbe bello un giorno ricominciare a imparare, come quando ero all’università.

Imparare a vivere, perché io non ho mai saputo come si fa. E amare le scarpe da montagna di una ragazza che non si trucca. Si aprono le porte del bus. È la Montagnola quella lì? Sì. Il parco della Montagnola. Tanti anni fa, cominciai da lì, una sera di giugno, a dare una forma alla mia vita. Incontrai una ragazza con gli occhi di ametista, e tutto si illuminò.

Cammino verso la stazione. Ormai si è fato buio. Ho mezz’ora per scrivere il pezzo sugli Oscar. Ma sì, in qualche modo ce la farò. A scrivere il pezzo, a prendere il treno in tempo.

Ce la farò a non pensare a quanta strada ho percorso, senza arrivare da nessuna parte. A quanta poca strada rimane da fare, a quanto vorrei essere un ragazzo di vent’anni, che perde il suo treno e si ritrova a mangiare pasta col tonno, e bere birra nei bicchieri della Nutella, a discutere di Calvino, se una notte d’inverno un narratore si ferma in una casa di studenti. Ma ce la farò, ce la farò a non dichiararmi sconfitto, a non darla vinta. Poi, stasera c’è sempre la partita di Champions League. Chissà come sarà bella.

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