Raccontare, raccontarsi nel dedalo della storia

DI MARINA AGOSTINACCHIO

Quante volte, immersi nel dedalo di eventi e problemi di fronte ai quali ci troviamo, ci sentiamo sovrastati; viviamo in uno stato di ansia capace di scomporci in più piani.

Ci stratifichiamo tra un affannoso respiro, una stretta al petto, una curvatura di schiena pulsante tra muscoli, vertebre, un dolore localizzato in punti nevralgici fra testa, occhio, tempia.
Il corpo parla un linguaggio che non subito decifriamo, presi come siamo dagli enigmi da sciogliere.

Intanto potremmo essere tentati di raccontare quanto ci accade alla prima persona disposta ad ascoltarci. La nostra storia è importante, merita di essere detta e di trovare considerazione nelle rubriche pubbliche.

Questo capita soprattutto quando, aprendo le pagine del mondo virtuale, ci troviamo di fronte ai fatti di tutti. Agiamo e pensiamo come se dovessimo entrare nella storia assieme ai grandi eventi.

Non volendo essere gli esclusi della storiografia ufficiale, pensiamo di potere essere eternati attraverso canali “di recupero” delle nostre vite.

C’è però, a ben pensarci, un modo per recuperare anfratti di vita, punti di vista e significati, proprio tra le pieghe del corpo e della mente. Si può viaggiare nel passato appena lasciato, visitando e rivisitando la memoria.

Facilitata dall’impulso delle sensazioni e delle emozioni, la memoria si attiva a portare in un presente la densità del nostro essere un unicum temporale e spaziale.
Cosa c’è di meglio, allora, della scrittura? e magari modulata attraverso la forma del racconto.

Pensiamo a scrittori come Marcel Proust che ha portato sulla pagina in forma di romanzo autobiografico e “inventio” letteraria (“Alla ricerca del tempo perduto”- “À la recherche du temps perdu”, pubblicato in sette volumi tra il 1913 e il 1927), l’affresco della propria vita sullo sfondo di scenari storici: “la Comune di Parigi, gli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale; la trasformazione della società francese in quel periodo, con la crisi dell’aristocrazia e l’ascesa della borghesia durante la Terza Repubblica francese”.

La scrittura ci permette di reinventare memorie, riempire le screpolature depositate per mezzo dei ricordi.
La scrittura ci consente di dire, e senza la pretesa di pareggiare o di divenire uno scrittore, sapendo di compiere un atto di testimonianza di una micro storia non meno importante di quanto ci racconta la storia con la S maiuscola, se non altro per il contributo che offre il racconto personale alla lettura di un periodo storico-sociale.

La scrittura restituisce noi e il mondo brulicante di persone, ci fa vedere, attraverso scelte lessicali, magari precise, quel mondo, la vita cadenzata in attimi, spasmi, l’idealizzazione tra un visivo e un visionario. Diveniamo l’io narrante. Nei meandri della memoria cerchiamo di dare un posto a tutto, condensato in un essenziale necessario.

Eravamo partiti dicendo di eventi e problemi personali, di fronte ai quali ci troviamo e sentiamo sovrastati.

Che si abbia o no consapevolezza dell’apporto che possiamo dare all’interpretazione di un disagio sociale generale in preciso momento storico, la scrittura agisce come momento terapeutico, ci fa prendere la distanza da noi stessi, aiutandoci a fare defluire e arginare le emozioni.

“Prendi un quaderno e scrivi”, ci dice lo psicologo, il medico, l’insegnante, la mamma al figlio…
Possiamo scrivere in forma diaristica, narrativa, minimale con appunti da riordinare in seguito.

L’importante è riprendere questa antica modalità espressiva, svincolata da volontà di narcisismo, inteso come specchiamento nella fonte che ci rimanda l’immagine; e qui penso alle vetrine virtuali in cui, in modo compulsivo, appaiono frasi, scritti più o meno dilatati, confessioni, confidenze…

Immagine tratta da Pixabay

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