Scuola. Prime considerazioni sullo sciopero del 30 maggio: prevalgono i crumiri

di Salvatore Salerno

Lo sciopero della scuola pubblica del 30 maggio rileva una percentuale di partecipazione intorno al 16% dei dipendenti, docenti e personale tecnico/amministrativo. In numeri assoluti significa più o meno 200.000 dipendenti che si sacrificano sulla trattenuta di stipendio di un giorno a fronte dei due precedenti scioperi di giugno e dicembre 2021 rispettivamente con il 2/3% e il 6/7% del totale dei dipendenti, cioè circa 30.000 a giugno e circa 90.000 a dicembre.
30.000, 90.000, 200.000 di oggi, una progressione troppo lenta che quindi non può soddisfare le aspettative anche minime per un successo, nelle condizioni date, verso una risalita della presa di coscienza, della necessità di protesta, di riconquista della fiducia dei vertici sindacali di tutte le sigle grandi e piccole.

Nessuno di buon senso poteva pensare di raggiungere, dopo sette anni di delusioni e mancati risultati proporzionali a quella grande protesta verso la 107 renziana, la cosiddetta buona scuola, quell’80% e passa di adesioni ma questo 16% non può essere spacciato come una vittoria.
Una soglia minima da cui ripartire era stimata al 30/40% malgrado tutti i difetti organizzativi, docenti e ata crumiri che hanno fatto a gara fra di loro nei social e nelle scuole per trovare compagnia, scagliandosi contro i sindacati, evitando di fare parola del ministro e del governo, dei partiti e movimenti, dei parlamentari assolutamente ignoranti di scuola e che pure parlano di scuola nelle commissioni di Camera e Senato.
Insomma tutta questa propaganda dei contro la sciopero e la trattenuta, scrupolosamente alimentata e contata dal Ministro e sodali come indice di soddisfazione del suo operato, ha vinto, docenti contro se stessi e la categoria rispetto a quello che sta succedendo e sul destino del decreto legge 36.
Un decreto legge che, in sintesi, è formazione di Stato suggerita da interessi privati per l’eliminazione surrettizia della norma costituzionale della libertà di insegnamento, digitalizzazione in tutti i suoi aspetti più pericolosi per ridurre posti di lavoro nella scuola pubblica e ridurre bagaglio di conoscenze ad alunni e studenti, sul reclutamento ad ostacoli e oneroso delle nuove assunzioni annunciate come tali, cioè nuove “assunzioni” quando si tratta di turn over e ruolo promesso nella massima dilazione possibile, con anni di prova ed esami, dopo anche dieci anni di insegnamento senza demerito, professori precari e di ruolo di lungo corso trasformati in “scolaretti” per tutta la carriera da improbabili formatori e commissioni che determinano la premialità sul lavoro su uguale numero di ore rispetto ai loro colleghi che non si sottoporranno a tale umiliazioni ed offesa sulla dignità umana e professionale.
Il tutto ben condito da pedagogia e didattica illuminata da accademici che non sono mai entrati in una classe da quando erano studenti.
Si vuole che si parli e si dibatta sulle loro corbellerie a partire dalle esternazioni quotidiane del Ministro? Ma ci facciano il piacere! Come direbbe il buon Totò.
Si fa una scuola di “alta” formazione, che di alto ha solo lo stipendio dei suoi apparati burocratici, altro carrozzone come Indire e Invalsi che restano e governano da presunta innovazione, rilevazione e valutazione rivolta agli studenti, il terzo carrozzone che determina e rivela il fine non troppo nascosto della valutazione dei docenti additati come i soli responsabili di ogni eventuale degrado della scuola pubblica e dei suoi insuccessi sulla dispersione che è esplicita alla quale si è aggiunta quella implicita per confondere ancora le acque.
Assolti tutti gli altri attori della politica, delle istituzioni centrali e territoriali, quelli dei mancati investimenti su scuola e quello che le sta intorno, disoccupazione giovanile e precariato alle stelle. Qualunque dei grandi e piccoli problemi italiani storici e contingenti è attribuito alla scuola e su questa cosa toccherebbe alla fine ai docenti risolvere.
Questo è il decreto numero 36, partorito dal Ministro senza ascoltare nessuno se non fondazione Agnelli e ANP, togliendo prerogative alla contrattazione fra datore di lavoro e dipendente nella democrazia costituzionale, facendolo ope legis, da potere esecutivo e profittando di un potere legislativo squalificato e messo all’angolo dalla sua pochezza com’è il Parlamento uscito dalle elezioni del 2018.
Un decreto che a questo punto sarà tranquillamente approvato da Camera e Senato, forse con qualche emendamento particolare ma sempre secondario, con il voto di fiducia senza tante storie dopo che solo il 16% di personale interessato manifesta il suo disappunto con lo sciopero.
Ma c’era e c’è di più sulla contemporaneità di questo affondo decisivo sulla differenza salariale del lavoro uguale, il “concorsone” di Luigi Berlinguer di fine novecento, allora travolto dalla protesta e resistenza dei docenti con tutto il resto del decreto.
C’è di mezzo il trattamento economico che è sempre segno di considerazione politica e sociale di una categoria, il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro.
Ci sono di mezzo il ritardo di 41 mesi del contratto scaduto 2019/2021 e i 40/70 euro netti di aumento dopo oltre dieci anni di stipendio fermo. C’è il dato dell’inflazione reale che da sola fa perdere almeno 100 euro netti mensili in media agli stipendi e che nei criteri della vacanza contrattuale istat è invece meno di 10 euro lordi. C’è il rinnovo triennale del 2022/2024 sul quale si dovrebbe già discutere e contrattare in vista della legge di bilancio.
Il quadro dopo lo sciopero resta sconfortante, troppo poco quel 16% che premia Ministro e Governo, boccia con sempre più limitate possibilità di appello i sindacati. Quei sindacati scuola che non possono non guardare al loro interno come dato modificabile sul piano organizzativo e della politica sindacale, intervenire anche nel loro mondo per gruppi dirigenti nazionali e territoriali.
Occorre più di una riflessione sulle RSU, responsabili direttamente del parziale fallimento, anche questa volta, dello sciopero, riconsiderare con coraggio tutto.
Guardare chiazza per chiazza la pelle di leopardo disegnata dallo sciopero con alcune scuole addirittura chiuse e quindi partecipazione quasi al 100% e altre dove gli aderenti allo sciopero si contano sulle dita di una sola mano e fra questi neanche il rappresentante sindacale delle RSU appena elette.
Di questo bisogna parlare dopo lo sciopero e subito, aver reso troppo facile denigrare genericamente e indistintamente i sindacati, averli resi deboli, penalizza i loro gruppi dirigenti e penalizza la categoria.
Il prossimo e immediato appuntamento sono i soldi, il vil denaro dell’aumento reale degli stipendi, almeno il recupero del dato dell’inflazione e piena erogazione degli stanziamenti al 31 dicembre 2021, sono insieme 150 euro netti mensili in media da gennaio 2022, 50 di arretrati, da raddoppiare con il contratto 2022/2024 a regime, le tre cifre che comincino con il numero tre.
Possiamo sperare nel 50% dei dipendenti della scuola che questa volta sciopera sui soldi, certo non prima di settembre ormai, che sciopera davvero?
Chi ha scioperato ieri vuole risposte e ha ragione da vendere. Gli altri si convertano e non si permettano di lamentarsi su nulla, lo facciano prima su se stessi.

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