Scuola. Tra la DAD e la DID, la disperata voglia di essere altrove

di Vincenzo Soddu

Oggi è stata l’ennesima giornata strana, di certo non l’ultima di quelle che a scuola, nelle superiori almeno, ci sta regalando la pandemia, e che ti fanno desiderare fortemente di essere altrove. Cinque ore di lezione, divise tra due in presenza e tre in Dad da scuola alle case dei ragazzi.
Collegamenti balbettanti (i tecnici sono in quarantena), corridoi vuoti, dove anche un caffè rappresenta un’occasione di fraternizzazione più che di socializzazione. Situazioni sfumate, in cui le due ore in presenza si dividono tra ragazzi stancamente appoggiati alle pareti e altri rappresentati da fantasiosi avatar sui video, e sei felice perché riesci a concludere comunque un discorso. Casi umani, tragici che si affollano davanti ai tuoi occhi e non ti danno nemmeno il tempo di capire, forse appena di comprendere.

Chi non è entrato a scuola nell’ultimo anno non può sapere quanta disperazione ci sia in quelle aule. Negli ospedali c’è la morte fisica, ma qui c’è quella interiore. Ormai l’unica cosa bella è essere ancora vivi, mi ha detto un collega, oggi, e io mi sono vergognato d’avergli dato ragione.

Poi esci e c’è una scena che ogni mattina, al termine delle lezioni, mi regala un sorriso.

Cinque ragazzi di Quinta, appena usciti dall’aula, rubano ogni volta un pallone dalla palestra e si mettono a palleggiare, felici, davanti alle auto parcheggiate. Io non so per quanto tempo ogni giorno rimangano lì, ma mi piace immaginarli ormai stanchi, malfermi sulle gambe, soddisfatti, essere cacciati di malo modo dal custode quando ormai è sera, e ridere della loro leggera giovinezza.

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