Seduti in quel caffè

DI GIOVANNI BOGANI

 

Gli scacchi tornarono, prepotentemente, nella mia vita, nei miei pensieri, nel ritmo delle mie giornate, per un’estate.

L’estate del 1979 lavoravo in un bar, a Viareggio. Era un lavoro duro, un sacco di ore fra il bancone, la macchina del caffè, i tavoli e le vaschette dei gelati, mentre tutti i sedicenni andavano al mare, suonavano la chitarra, nuotavano e baciavano le ragazze.

Ma a me quel lavoro piaceva. I giorni erano scanditi dagli orari massacranti, dalle casse che mandavano Iglesias e “The Logical Song” dei Supertramp, con quell’assolo di sax e quell’armonia sempre sospesa fra gioia e dramma.

E dagli odori di caffè e di gelato al Malaga, odori di Courvoisier, di grappa Nardini e di Stravecchio Branca.

Quando finiva il turno l’aria, fuori, era bellissima. Il sole splendeva come in un film di 007. Il cielo era di un azzurro perentorio, squillante. E nella strada verso il mare, c’era il bar degli scacchisti.

Un bar come un altro. Ma sui tavolini, ai bordi della strada, c’erano cinque o sei scacchiere, e quando passavo giocavano sempre.

Entrai, chiesi un caffè. No, non volevo giocare. Do solo un’occhiata. Pochi minuti dopo stavo giocando.

Io pensavo a lungo alle mosse, ma loro giocavano veloci come il vento, come se giocassero a briscola. Come me quando scrivo, battendo sui tasti senza pensare.

Loro catturavano alfieri, cedevano pedoni, spostavano pezzi come se fossero dotati di vita, come se fosse normale per quei cavalli di plastica scorrazzare a L sulla scacchiera.

Giocavano veloci come i ragazzi che, a New York sotto la Ventesima strada, nei campetti chiusi dalle reti metalliche, giocano a basket, fanno finte e indovinano un tiro da tre, reticella.

Quel pomeriggio persi tutte le partite. Scoprii che in quel bar dimenticato giocavano anche dei Grandi maestri, persone che avevano fatto tornei internazionali. Mi fecero giocare con loro, e qualche volta riuscii a vincere.

Ma soprattutto, mi successe una cosa che non mi è accaduta mai più: tutta la vita scivolò dentro gli scacchi.

Gli scacchi diventavano la metafora di tutto, di tutta la mia vita: ogni scelta, ogni dialogo, ogni minuto assomigliava a qualche mossa degli scacchi. Tutta la vita era come una partita a scacchi.

E gli scacchi mi insegnavano le regole della vita. Tutto era in quella scacchiera. Come tutto, ora, è dentro questa piccola tastiera di computer.

Anche qui c’è tutto il mondo, tutte le combinazioni del vivere, dell’amare.

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