Storia de l’U. n° 11 (Un’avventura (sentimentale) nel parco)

di Paolo Massimo Rossi

Storia de l’U. n° 11 (Un’avventura (sentimentale) nel parco)

Ascoltava l’U. il racconto che Q. faceva riguardo a una chiave. Quella di casa (la sua, di Q.). La teneva conservata in una tasca sul davanti. Q. diceva le braghe ma l’U. pensava le brache. Il di sotto, più giù, per nascondere il per su. Ma Q.: l’ho persa, l’ho persa! Esclangeva. E l’U.: fanne una copia! Come? Chiese Q. L’impronta nel burro, nel gesso, l’U. rispondeva.

Ma Q. nicchiava, non sapeva il perché.

L’U. pensava: una signora, una signora donnesca, ma Q. ne aveva l’aspetto, il profumo, l’odore? Di salmone affumicato. Q. la saponetta l’aveva dimenticata scavalcando la vasca or qualche anteora. Per questo quatta e octo(pussy) si diresse dove fare pipì dietro un cespuglio di more selvagge. l’U. la seguì: stesso neroverde moresco, stesso, da parte opposta, da cui scorse, in penombra ombreggiante, la chiave d’in tra i lacci slippeschi alludenti. Due dita a stringere il naso. L’odore di chiave conservata nel di sopra rosa confetto di rada peluria, irsutamente puntuta, umidiccia e setosa, come l’U. scoprì da solo, toccando(gliela). Prova che Q. fosse donna donnesca e che l’U. non desiderava altro che quella. Ma Q. (che come donna in crinolina sarebbe stata in altri tempi di meme perfetta) gli tolse dal naso le dita, con l’azione delle quali l’U. soffocherebbe ancor prima di entrare nella sua stanza, di Q.

Era la voglia di Q. e null’altro, che suggerì (a se stessa) un minimo d’astuzia arrossente mentre operava, le bianche manine gentili a forzare quelle rosee e cercanti dell’U.

La scala apparve allora prospettica, la porta ineffabile e chiusa. Q. continuava a cercare la chiave nell’ora mutante ma trepidante. Che si fa? Chiese Q (sempre irsuta nello slip oleoroso). Torniamo nel parco, fece l’U. E dove? Q. ri-chiese. Dietro il cespuglio odoroso di rose confetti, (Oh, l’odore di te!) Propose-constò l’U. Lei lo prese per mano per correre meglio, sino al parco profumoso ombreggioso.

Dov’è, mio dio, dov’è? Q. apprensiva esclamò.

Trovarono il pertugio pugliesco, si distesero accanti. Voglio sentirti! Disse l’U. Qui? Adesso? Q. timida rispose. Poi: possono guardando scoprirci!

Fai ora solo di linguesco operare, ma domani, un meglio accadrà, sarà giorno altro. Ecco la chiave! Odorosa di slip. Oh! Quel desire, concluse l’U. E: due piccioncini con una favola sola, soffiandosi (finalmente) le nari, con diretta digitalnettatura. Carta igienica fu ausiliatrice, diversamente odorosa, più tenue, sino a far comparire del tutto il sentore sentimentale.

Fu allora che Q. poeticamente ispirata affermò: Amo la natura, animali e piante comprese. E i cani? Chiese l’U. curiosante. Oh, i cani, disse Q. Li ho accuditi, spazzolandoli, nel cesnicchio, da dove volevano, invece, uscire e seguire i passi del padrone ormai mai troppo lontano. Non abbastanza da non pensare (loro, i cani) al richiamo di quello (il padrone), all’ombre misterieuse, all’aria leggera rifugio del cuore, agli spazi luminosi, al tempo del sollazzo coi piedi per terra, alle partite più perse, al perché e al perché dirlo. Quest’ultimi per soddisfare la Thackerdlanità, quella che Billfacquedipace e non affatto, sempre affatto, di guerra.

E come finì? Chiese l’U.. E Q., rispondendo: Chi? Il padrone? Preso dai suoi demoni, fu denudato e flagellato, e infin da quest’ultimi affisso a portone qual pistrello ormai morto. Senza processo? L’U chiese ancora. Sì, Q. rispose. E l’U. tacque amareggiato e scontento.

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