Storie di pastori

DI FABIO BORLENGHI

 

 

La piana di S. Serena è un piccolo altopiano carsico incastonato nei Monti Lepini nella Ciociaria laziale, non lontano da Frosinone. In un giorno feriale alla fine degli anni ’80 decido di arrivare fin lì percorrendo in auto la strada che da Supino s’inerpica sulla montagna.

Questa strada, una profonda ferita paesaggistica visibile a chilometri di distanza, qualche anno prima permise ad alcuni bracconieri locali di raggiungere una zona in quota dalla quale abbatterono a fucilate la coppia di aquile reali da sempre nidificanti in quel sito, causando così l’estinzione locale della specie.

Giunto sulla piana, lascio l’auto e m’incammino a piedi verso il centro dell’altopiano. Il colpo d’occhio è toccante: una grande conca verde disseminata di fioriture spontanee primaverili e attorniata dai fianchi di due montagne con alternanza di boschi, arbusteti e pietraie biancastre in forte contrasto con l’azzurro del cielo.

Raggiungo un grande fontanile e lì mi fermo per bere, allietato dal suono dell’acqua che scorre. Mi arrivano altri suoni, alcuni piacevoli altri meno, lo scampanio dei cavalli al pascolo brado, l’abbaiare dei cani a ridosso di un gregge di pecore e capre, la ‘risata’ del picchio verde e ogni tanto i richiami sguaiati dei pastori.

Immerso in questa wilderness, mi dirigo verso due pastori seduti su alcuni massi di pietra. Superato il primo istante di diffidenza dovuto all’insolita presenza, in un giorno feriale, di un ‘uomo civilizzato’ in un posto così, mi presento ai due come un semplice escursionista occasionale amante della montagna.

Inizia così un dialogo difficile in cui all’inizio subisco il solito sfogo dei locali indigeni, soprattutto se radicati in un luogo ristretto, verso le istituzioni tutte che non pensano ai loro bisogni e che li vessano con divieti vari di sopra e di sotto, dal taglio del bosco alle limitazioni del pascolo e così via.

Il mio scopo però è di farmeli amici e di sapere se vedono o no qualche aquila in giro. Sposo così apertamente le loro ragioni e per tutta risposta m’invitano nel loro stazzo ad assaggiare una caciotta di loro produzione annaffiata da un vino locale di dubbia provenienza.

L’interno dello stazzo o capanno è quanto mai spartano ed essenziale con al centro un tavolaccio di legno e qualche panca intorno, qualche arnese appeso alle pareti, un vecchio fornello a gas con bombola annessa, e un ripiano con qualche pentola e piatti vari messi uno sull’altro, mosche e mosconi dappertutto.

La caciotta non è male e il vino appena bevibile, ma fingo sia buonissimo. Chiedo che animali selvatici ci sono in quei luoghi e partono i racconti su qualche lupo ancora superstite avvistato la sera, sui cani randagi scambiati per lupi, sulle volpi che si vedono ai margini del bosco e così via.

Rompo gli indugi: “e le aquile?…” Il più loquace dei due pastori mi dice che non si vedono più da tanto tempo tuttavia ricorda un episodio accadutogli una decina di anni prima.

Una mattina stava portando le capre lungo un sentiero non lontano dalla rupe che ospitava il nido delle aquile e, siccome aveva fretta, scelse come scorciatoia un balzo roccioso scoperto dalla vegetazione.

Fu allora che, mentre le capre lo percorrevano in fila indiana, l’aquila piombò fulminea sull’ultima capretta della fila portandola via sollevandola di peso. “Fu un mio errore…”commenta così il pastore“..non dovevo passare di lì”.

Quest’ammissione di responsabilità e l’assenza di odio, nei toni, verso l’aquila mi colpiscono positivamente perché dimostra che a volte, ma purtroppo non sempre, il rapporto uomo e natura può avvenire nel rispetto di entrambi.

A questo punto della chiacchierata, con la testa che mi gira per effetto del vino e del caldo nel capanno, chiedo ai due se ci sono lepri da quelle parti, sottolineando il fatto che la lepre è preda ambita dall’aquila.

Come pronuncio la parola lepre il secondo dei due, fino a questo momento rimasto in silenzio, si alza di scatto, mi afferra per il braccio e mi trascina fuori dal capanno.

A disagio per la testa pesante e il riflesso abbacinante del cielo nel primo pomeriggio, ascolto il racconto del secondo pastore.

Questi, portandosi ai piedi di una pietraia scoscesa con un bastone in mano preso da terra, mi dice che una volta aveva appena ricondotto le pecore all’ovile in un pomeriggio estivo quando era apparsa l’aquila con una grossa lepre fra gli artigli mentre volava bassa poche decine di metri sopra quella pietraia, rasentando il fianco della montagna.

A questo punto il pastore, mimando la scena, mi dice che allora d’istinto iniziò a gridare con tutta la forza che aveva in corpo arrivando a scagliare il bastone il più lontano che poté nella direzione dell’aquila e questa, infastidita da tanto frastuono, mollò la lepre che cadde sulla pietraia e che lui poi riuscì a recuperare.

Finito il racconto appassionato, osservando il fianco della montagna col sottofondo dello scampanio di un cavallo, nell’azzurro intenso del cielo mi sembra di vedere, immaginandola, la sagoma scura dell’aquila mentre scivola silenziosa ad ali socchiuse…Ora il pastore tace, rosso in viso e gli occhi persi verso la piana. Chissà quanti altri ricordi gli serpeggiano nella mente.

I racconti dei pastori sono frammenti di storia dei luoghi che si perdono nel vento e chi li coglie avverte emozioni antiche.

Qualche anno più tardi, sempre in montagna ma questa volta in provincia di Rieti, alle pendici di un monte e davanti a una rupe che sapevo ospitasse un tempo il nido delle aquile che non riuscivo a localizzare neanche col cannocchiale, a un certo punto, annunciato da scampanellii vari, ormai sera, arrivò un vecchietto che si reggeva a malapena appoggiandosi a un bastone, con una decina di pecore al seguito e un cagnetto simpatico a fare da guida a quel gregge in miniatura.

Richiestegli notizie del nido, mi rispose che, nonostante fosse quasi cieco, si ricordava bene la sua posizione e così mentre inquadravo col cannocchiale la rupe iniziò a guidarmi ricordando a mente i particolari geometrici della rupe fino a quando, muovendo l’ottica sotto le sue indicazioni, riuscii ad arrivare a quello che restava del nido delle aquile.

Quel simpatico vecchietto, pastore d’altri tempi quasi cieco, non l’ho più dimenticato.

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