Tassisti di notte

DI GIOVANNI BOGANI

Papà stava sempre peggio, ma non ti è mai venuto in mente di lasciarlo. Nel film indiano che ho visto stasera, un attore dice “sono il tassista. La strada può essere difficile quanto si vuole, ma non si ha il diritto di abbandonare il passeggero”.

Papà era il tuo passeggero, mentre la strada si faceva sempre più rovinosa, più impietosa, più implacabile. Ma non lo hai mai abbandonato, anche se non era più un amore, era soltanto un continuo comprendere che la vita aveva barato, con te.

Forse per questo ho sempre avuto il terrore di un figlio che nascesse con qualche malformazione, con qualche condanna in via definitiva alla sua vita, alla sua felicità, e alla mia.

Perché non volevo vedere più dolore, e sapevo quanto dolore nasconde ogni malattia, quanto dolore secerne ogni minuto, ad ogni abbottonarsi di camicia, ad ogni paio di calzini da infilarsi, ad ogni respiro di giorno e di notte.

Ma non c’è salvezza contro il male, non lo si può prevedere, non lo si può scansare. Si può solo, in alternativa, costruire una compatta, cristallina solitudine.

Papà annegava, e nuotavi stringendogli un braccio sotto l’ascella, per portarlo alla riva. Eppure papà era colto, brillante, era stato in Africa, leggeva i gialli in inglese, sapeva conversare con il turista scozzese di villa Erika; era lui quello che avrebbe dovuto nuotare libero, felice nel mare della vita.

Eppure, qualche volta, sui prati del Poggetto, lì dove ora c’è solo un grande parcheggio sempre pieno di auto, e dove allora c’era dell’erba, i palazzi lontani a segnare il confine della città, lì su quell’erba qualche volta abbiamo anche corso insieme. E al Poggetto, sui campi di terra battuta, abbiamo giocato a tennis.

Mi dicesti, papà, “tra qualche giorno giocheremo a tennis”. E fui, per la prima volta, davvero impaziente. “Quando? Quando?”, ti ripetevo. Comprammo due racchette all’Upim, i grandi magazzini che erano il segno della modernità, costavano 2.500 lire l’una, non tanto.

Non erano molto buone. Comprammo delle palline, bianche – ancora non si usavano gialle – e delle magliettine bianche. E mi sentivo già Björn Borg.

L’ora che avevamo prenotato, al campo numero 4, mi sembrò brevissima. C’è anche una foto che ci ritrae, io con gli occhiali di celluloide nera da Mike Bongiorno, tu con le tue gambe muscolose, da schermidore.

Qualche volta, per riprovare quella gioia, sono tornato al Poggetto, a tirare palle contro un muro, con una riga segnata sopra.

Immagine tratta dal web

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