Immaginiamo costantemente miriadi di esistenze possibili. Quando non la detestiamo, fuggiamo dalla nostra esistenza e dalla rigida struttura che essa, grazie al nostro impegno o alle nostre viltà, è andata assumendo.
Sogniamo realtà da bambini – nel migliore dei casi. Altrimenti – ci sballiamo. Di emozioni, di selfie, di droga, di alcool o di sesso.
Se la nostra identità non è certa, le relazioni che essa stringe sono ancor meno sicure: grazie alla tecnica, le relazioni virtuali contano spesso più di quelle con cui abbiamo a che fare ogni giorno. Su questa strada, tutti saremo presto in relazione con tutti, ma nessuno sarà insieme a nessuno.
Si potrebbe obiettare, con buone ragioni, che l’identità “essenzialistica” costruita dall’Occidente era una finzione come tutte le altre. E che spesso occultava delle vere tragedie. E’ vero.
È vero anche, però, che aveva la forza dell’illusione vitale: quell’identità dava contenuto e senso alla vita dell’uomo. L’abbiamo decostruita. Benissimo. Nessuna nostalgia.
Dovremmo tuttavia chiederci se si possa vivere senza alcuna identità? Voglio dire: se si possa vivere decentemente. A fronte di quelle del passato, stabili e certe, le “identità” contemporanee, instabili e precarie, sfiancano e nevrotizzano.
Riusciremo a costruire un nuovo spazio abitativo umano – reale o illusorio che sia? O dovremo continuare a vivere nei non-luoghi della non-appartenenza?
Abbiamo distrutto la realtà. Che cosa faremo quando avremo consumato anche la finzione?
Immagine tratta dal web
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