Vincenzo Biavati, Starlight

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

Dal classico alla luce. E non perché la luce prima non esistesse o non avesse importanza, al contrario: per gli artisti si è sempre trattato di un elemento fondamentale da conoscere, plasmare, utilizzare modulare.

Il fatto è che, solitamente, parliamo di luminosità, non propriamente di luce, ovviamente con ogni doverosa precisazione e analisi in dettaglio. Eppure non si tratta di questo.

È ciò, l’artista Vincenzo Biavati, bolognese di nascita, ma ferrarese d’adozione, classe 1940, sa e comprende dall’inizio.
Se fin da bambino ama collezionare le varie immagini pittoriche presenti a decorare i calendari – oggetto poco meno che di culto in terra romagnola, da sempre presente in ogni casa – e finisce per riprodurre le scene religiose, tipiche delle proposte in questione, utilizzando anche materiali di fortuna, col tempo le sue tecniche e creatività si evolvono tra inchiostri, tratti e colori, direzionando le idee in senso più attinente a disegno e pittura, per poi giungere ad una maturità, seppur in continuo divenire, incentrata sugli studi relativi alle installazioni luminose.

La luce, la svolta. L’elemento chiave, oggetto delle tesi di laurea che Biavati presenterà a Brera al termine del proprio percorso accademico, diventa il punto nodale di attrazione di una fantasia inventiva volta ad estrarre l’innovazione che attende di essere scoperta.

Una mentalità michelangiolesca, che anziché incentrarsi sulla pietra, plasma in maniera figurativa, scultorea, la luce artificiale che da sempre lo attrae.

E i fasci luminosi, incanalati in apposite strutture, diventano il banco di prova di una esaltazione creativa in grado non solo di esprimere la luminosità immediata, quanto di scoprirne i fattori più reconditi anche in materiali apparentemente lontani e inusuali.

La differenza di percezione dettata da una sensibilità sui generis, che permette di vedere la luce non tanto dove tutti sono in grado di vederla, ma di scoprirla e riscoprirla nelle occasioni più inaspettate.

Zlatan Ibrahimovic, davanti al procuratore che si deve occupare di collocarlo sul mercato calcistico, all’evidenza di alcune cifre indubbiamente minori rispetto a quelle di altri sportivi più quotati, immediatamente gli sottolinea i parametri non tanto della propria, quanto della sua capacità.

‘Con quei numeri mi vende anche mia mamma’, tra sfida e genialità, valutando cosa si ha a disposizione e sfruttandone le risorse: questo è il vero ingegno, questo è il reale talento. E lui lo sa, al pari di un artista.

E Biavati mostra di conoscere proprio il suddetto meccanismo, il cui fulcro non coincide con la consuetudine scontata di vedere la luce nei colori dell’arcobaleno o nei cristalli pregiati – in quei materiali, con quei numeri, ci riesce chiunque – ma procede oltre nel trovarla ed estrarla da contenuti in cui nessuno la vede o in cui nessuno la vede più.

Oggetti in disuso che tutti guardano ma nessuno vede – in un episodio del film Di che segno sei?, di Sergio Corbucci, un improbabile Paolo Villaggio, durante una conferenza a sfondo femminista, afferma come le donne, dopo anni di semplice ‘guardare’, finalmente hanno visto, chiosa estremamente seria ad un discorso che pareva orientato in ben altra direzione – che l’autore ritrova e ricrea, senza tralasciare nulla, dai vuoti a perdere materiali a quella sottile, fantastica illusione in attesa di essere coinvolta in una nuova dimensione, di disneyana memoria, atta a liberare il diamante allo stato grezzo.

Riflessi, bagliori, scintille, talvolta celati da sovrastrutture oscuranti, improvvisamente restituiti ad una nuova, oggettiva plasticità, armonicamente esaltata, magicamente escogitata…

Immagine: Vincenzo Biavati, Starlight

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