“Vivere altrove”

DI MARINA AGOSTINACCHIO

Chi sono le donne perdute? In quali spazi vivono, hanno vissuto? E soprattutto, perché perdute, dove si sono perse, smarrite a causa di cosa o di chi?

Sto pensando a molte, madri, mogli, semplicemente compagne di viaggio di uomini “grandi”, uomini che per motivi di lavoro hanno portato con sé colei che, investita di un ruolo, anche solo per scelta, di vestale, non ha sentito come priorità esistere come entità autonoma, perché soggetta a un meccanismo di “velamento” di sé.

Rinunciando ad essere considerate e ricordate negli anni, hanno inteso sottostare a un riconoscimento pubblico e duraturo.

Non voglio concentrare la mia attenzione solo sulla donna che incontriamo nel nostro quotidiano andare per via -che pure sarebbe da indagare per scoprirne la bellezza, l’autenticità, il saper fare – ma alle donne artiste, studiose, alle donne dedite alla politica che lavorano nelle retrovie, a quelle a capo di piccole imprese, o semplicemente che collaborano per un progetto, piccolo o grande che e il cui nome non apparirà mai sulle copertine dei giornali o in prima pagina.

La sorella di Beppe Fenoglio, Marisa Fenoglio, era una scrittrice che seguì, in Germania, alla fine degli anni Cinquanta, il marito dirigente di una nota azienda dolciaria, per provvedere alla casa e alla famiglia. Ma lì imparò la lingua tedesca e lo fece in modo egregio.

Marisa, una donna orfana di uno spazio visibile e condiviso, esiliata all’interno delle pareti domestiche.
“Vivere altrove” è il libro della Fenoglio che ci narra un cammino in solitudine, per quel senso di sradicamento e di ricerca, mai veramente raggiunta, dell’appartenenza a una terra, a un gruppo, a una cultura, a una narrazione comune.

Ma vivere altrove è anche il nostro ogni qual volta viviamo il dislocamento dentro noi stesse, una specie di alienazione perché non possiamo permetterci di congiungere e far vivere le tante parti di noi.
C’è un libro che riapro, di tanto in tanto, per proseguirne la lettura e centellinandone le pagine, “Le disobbedienti.

Storie di sei donne che hanno cambiato l’arte”, di Elisabetta Rasy che parla di sei donne:
Artemisia Gentileschi, Frida Kahlo, Élisabeth Vigée Le Brun, Charlotte Salomon, Berthe Morisot, Suzanne Valadon. Sei pittrici, vissute in un mondo “squisitamente” maschile. Donne, queste, vissute in epoche storico-culturale diverse, oltre ad essere appartenenti ad ambienti differenti e ad essere contraddistinte da personalità eterogenee.

Per essere sé stesse, sono dovute andare incontro a pregiudizi, violenze, a cui hanno saputo opporre coraggio, audacia, tenacia; e dove attecchiva costituzionalmente in loro fragilità e debolezza, ecco la vita travagliata trasformarle in donne forti, in grado di affrontare un mare periglioso e di plasmare la propria natura, trasformandola in un sentire e un atteggiamento virtuoso.

Certo, per potere coniugare impegni famigliari, anche se amorevoli, a un sentire che chiede un dispiegarsi dello spirito, in forme plurime che significhino l’unicità che si è, ci vorrebbe la creazione di un confine oltre il quale la mente possa trovare quel silenzio necessario per ascoltarsi e far emergere il dono che noi portiamo attraverso il nostro essere corpo, suono, segno, tempo, movimento.

Bisognerebbe azzerare le menti, riprogettare un pensiero ancora troppo al maschile.
Bisognerebbe potere educare ambo i sessi a una gestione consapevole e responsabile della vita comune, per far generare naturali automatismi di distribuzione di compiti, all’interno della casa, del lavoro.

Bisognerebbe annullare gli atti di concessione, spesso elargiti dall’uomo, a nostro riguardo, per potere dire che non è l’ora delle donne, il ritornello che sentiamo da un po’ di tempo in qua, ma è il tempo di ambedue, donne e uomini, uomini e donne

Immagine tratta da Pixabay

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