Berlino e le cose che non ti ho detto

DI GIOVANNI BOGANI

Questo è il seguito di quella storia di Amsterdam, di Haarlem, di un ragazzo diciassettenne con la chitarra sulla spalla, che ero io.

Berlino

Perché decisi di andare a Lussemburgo? Perché mi piaceva il nome.

Perché pensavo che fosse una piccola città bellissima. Perché non avevo ancora imparato niente, dall’indiano olandese che mi accusava di avergli rubato il passaporto, da Peter Tosh e Bob Marley che volevano la mia chitarra, dal freddo della notte prima, dalla pioggia, da tutto ciò da cui il nylon della mia giacca Adidas non mi aveva saputo difendere.

E comunque arrivai a Lussemburgo. Oggi ci vogliono sette ore e mezza, non ricordo quanto tempo ci volle, allora. Arrivai che era sera, trovai il centro della cittadina.

Mi misi per due ore a disegnare una chiesa. Poi tornai indietro, e ripresi il treno. Beh, insomma, mamma, forse avevi ragione a preoccuparti, quando andavo via.

Quando, a vent’anni, andai a stare a Berlino per un mese, per imparare il tedesco che non ho imparato mai, trovai da dormire in un immenso stanzone, abitato da nove militanti femministe punk. I letti erano grandi cassette della frutta, la distanza dal pavimento pochi centimetri.

I topi non erano infrequenti: ogni tanto, dal piano di sotto, veniva introdotto nello stanzone qualche gatto, per fare pulizia. I cani lupo ci facevano compagnia, anche la notte.

La mattina, le ragazze sedevano con aria meditativa sulle sedie di legno attorno al tavolo, bevevano con studiata lentezza misteriose tisane, e ogni tanto urlavano: “Scheisssssssse!!!!”. Cioè: meeeerdaaaaaaa!!!

Una volta entrarono, all’alba, sei o sette poliziotti, controllarono a tutti i documenti, erano molto agitati. Una ragazza si era buttata di sotto, nella notte. Ma dal piano superiore. Era morta. Ma se ne erano accorti soltanto all’alba.

Ogni tanto, la sera, quando tornavo in metropolitana, qualcuno accanto a me si vomitava addosso, piano piano, con gli occhi chiusi come se stesse dormendo, o si pisciava nei pantaloni. Berlino Ovest, 1985. Non ci facevo neanche più caso.

Scendevo da quella vecchia metropolitana, all’ultima fermata, dopo quella c’era solo il Muro, e di là l’ignoto. Salivo le scale di quella casa dai muri bruni come il pane nero dei tedeschi, e già entrando dalla porta di ferro tipo garage sentivo il saluto che mi era così familiare, che mi faceva tanto aria di casa: “Scheeeeeissseeee!!!!!”.

Tu, mamma, queste cose non le hai mai sapute. Avresti chiamato la Farnesina, per organizzare un salvataggio, per farmi venire a prendere dalle teste di cuoio.

Sarebbero scesi con gli elicotteri, nel mezzo della notte, sarebbero entrati da quei finestroni, sarebbero atterrati con gli scarponi sui materassi unti e sudici, e senza dire una parola mi avrebbero portato via.

Immagine tratta dal web

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