Burri e il grande cretto di Gibellina: per non dimenticare il passato

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

Italia, fine anni Sessanta. La cittadina di Gibellina, in Sicilia, in seguito al terremoto che nel gennaio 1968 spazza il Belice, è completamente distrutta.

Un cumulo infinito di macerie a perdita d’occhio: quelle che prima, non molto prima, erano state case, ora sono un agglomerato informe di ruderi.

E qui entra in gioco il sindaco, Ludovico Corrao, il quale, nel 1969, ne prende in mano la ricostruzione, decidendo di restituire, o meglio ridare, a Gibellina ciò che non ha mai avuto: una dimensione sociale completamente nuova che ne trasformi l’immagine, prettamente agricola e rurale, in un innovativo polo di arte e cultura.

La città viene ricostruita, a qualche chilometro di distanza da quella vecchia, e si chiamano a raccolta i maggiori artisti dell’epoca affinché abbiano la possibilità di dare un proprio contributo a questa rinascita.

Arriva anche Alberto Burri, in quel momento il più celebre e conosciuto artista italiano; colui che ha saputo ricavare arte e pittura dai sacchi di iuta del piano Marshall. Che ha dimostrato come un materiale qualsiasi, anche l’oggetto più inusuale possa trasformarsi in pittura.

Una pittura atipica, nelle parole dello storico dell’arte Carlo Vanoni, fatta di luce, colori, tensione, equilibrio, rapporti formali. La pelle di un uomo ferito; così verranno definiti quei sacchi lacerati, bruciati ed impietosamente esposti a colpire sguardo e anima del pubblico.

Eppure Burri, invitato a visitare la nuova, preziosa Gibellina, non ha particolari reazioni. Ne prende atto – probabilmente giudica la cosa encomiabile – ma nulla di più, almeno fino a quando chiede di essere accompagnato a visitare i resti della città vecchia.

Ed è qui, al cospetto di quel disastro materializzato, che viene letteralmente travolto da un profonda emozione che lo porta quasi alle lacrime, e comprende che può fare qualcosa per quel mondo martoriato.

E ha la visione di un gigantesco cretto.
All’epoca, Burri, realizzava già i cretti, superfici quadrate o rettangolari, di un certo spessore, bianche o nere, il cui aspetto ricordava il terreno argilloso nei periodi di siccità, ottenute tramite l’impiego di materiali e colle viniliche, ma qui parliamo di qualcosa di diverso e mai concepito fino a quel momento.

Qui si tratta di una città. Quei materiali sono ricordi – il sindaco Corrao sarà ferocemente attaccato dai suoi detrattori, i quali affiggeranno manifesti inneggianti alla sua presunta, delirante follia – e stravolgerli in ciò che ha in mente Burri significa perderli irrimediabilmente.

Ma Corrao sa che, prima o poi, svaniranno comunque, oggetto di una inevitabile riaffermazione del dominio della natura, e Burri, che nonostante l’idea, non ha ancora ben chiare le modalità di realizzazione, con l’aiuto di ottimi collaboratori, tra i quali l’architetto Zanmatti ed il progettista Giuseppe Pirrello, inizia a dare forma a quella che diventerà l’opera d’arte più estesa d’Europa.

E partendo da un foglio trasparente 30×30 sovrapposto alla aerofotogrammetria dei ruderi, Burri segna linee e traccia blocchi. Segue l’andamento di quelle antiche stradine e ne ingabbia la storia attraverso intelaiature di metallo e colate di cemento.

Il risultato è il Grande Cretto, monumento alla memoria di ciò che non ha mai cessato di esistere, e che in realtà, causa vicissitudini legate anche alla mancanza di fondi, non ha mai raggiunto le dimensioni ipotizzate dal suo ideatore, ma che oggi domina quell’angolo di Sicilia perché il passato non venga dimenticato…

Immagine tratta dal web

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