Clemy Scognamiglio, Fuorbando

DI MARIO MESSINA

Anni addietro il caso volle che lessi, in sequenza, dapprima “Acciaio” di Silvia Avallone e, successivamente, “Le donne di Messina” di Elio Vittorini.
Benché tra i due testi intercorressero soltanto sessanta anni e il secondo possa essere ascritto alla fase più matura del Novecento riscontrai tra i due romanzi una abissale differenza lessicale e sintattica.

Fui costretto quasi adattarmi ad un linguaggio che sembrava partorito in un’altra epoca.
L’operazione richiese diverse decine di pagine e questo non mi impedì, così, di gustare una delle opere di Vittorini meno note ma più significative.

L’ approccio che ho avuto con “Fuorbando” è stato analogo e mi ha ricordato questo aneddoto.
Si tratta, infatti, di un romanzo storico che, benché concepito oggi, fa ricorso ad un linguaggio che vuol essere quanto più aderente possibile all’ epoca descritta.

Richiedendo, così, una esperienza immersiva notevole al lettore.
Soprattutto in principio.
Lo stesso registro linguistico è parametrato sul personaggio protagonista nella singola circostanza.

Popolare con inserti dialettali per il popolino, burocratico per guardie e gendarmi vari, raffinato per la ricca aristocrazia terriera.
Crudo, in fin dei conti, nella descrizione delle esistenze.

Perché di miseria quasi sempre si tratta.
E, pertanto, di emigrazione.
Fine Ottocento.
Tratta: Campania post unità d’ Italia- Uruguay, presunta Svizzera dell’ America Latina.
È questo il nodo ineludibile.

Di come il destino della povera gente cambiasse solo fuso orario o latitudine.
Lo fame e lo sfruttamento, invece, rimanevano dolorosamente intatti.
Che si trattasse di un opificio campano o di un macello a Montevideo la scala sociale non subiva scossoni.

Ancor più se la povertà era “femmina”.
Un destino ancora più doloroso ed infimo.
Preda di appetiti padronali e delinquenziali maschili.
Perché in povertà pure la bellezza diventa un rischio ulteriore:
<<non era una cosa buona, l’ avvisò Teresa, che conosceva i danni di una bellezza indifesa, quella che resa debita contro chi non poteva proteggerle, sarebbe solo servita a distruggerle per prime.

Per questo Immacolata, ingenua e lieve, subì il morso del lupo vecchio>> (pag.15).
Questo libro, infatti, a differenza di altri, è così, principalmente, un romanzo di emigrazione femminile a differenza di numerose altre opere in cui protagonisti sono gli uomini che, come pionieri, prendevano la rotta della ‘Merica.

Si pensi al romanzo “Frieda” di Cristophe Palomar (Ponte alle Grazie) ambientato in Argentina ed interamente concentrato su un protagonista maschile, tanto per citare un esempio.
Per tornare al nostro romanzo questo presenta una struttura circolare con un percorso che inizia di qua dell’Oceano e prosegue in quel mattatoio che fu per moltissimi l’Uruguay di una aristocrazia bianca impietosa con i poveri quanto razzista con le persone di colore.

Un percorso che affida, poi, all’amore il compito di chiudere un cerchio in cui sembra che a dominare sia solo la violenza.
Dall’ alto verso il basso della società.
Dal nord savoiardo al sud postborbonico in un clima di assedio in cui le baionette sono l’ unica risposta ad una domanda di pane e giustizia sociale.

Siamo, infatti, ancora alla fine dell’ Ottocento e dovremo aspettare qualche decennio perché le masse prendano la parola in altre forme.
Ben più radicali.

Immagine tratta dal web

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