Come Assan, immagine di uno dei miei ragazzi di scuola

DI MARINA AGOSTINACCHIO

Lo vedo, sempre, lui fuori dal panificio del mio quartiere, a due passi dalla casa che abito.
Paziente, educato, dignitoso. In attesa di chi si accorga di lui. Lo chiamerò Assan per dare un volto che possa imprimersi nell’immaginazione, lungo la verticale occhio-mente-psiche, di chi legge.

Assan non ha un’età definibile, come molti di questi scappati dal proprio Paese per i motivi di guerra, di miseria, di persecuzione, che ben conosciamo.
Potremmo commentare che sarebbe stato meglio rimanere nella propria terra di origine; meglio la povertà che conosci di quella a cui andrai incontro!.

A me Assan riporta a uno spazio lunare, incontaminato, l’essere al suo esordio sulla terra, un’innocenza che non sa i meccanismi della cattiveria, quella parte dell’uomo che è andata, purtroppo, “facendosi” per strada.
E pensare che Assan pare, nella sua eterna postura verticale in cui lo si può trovare fuori dal negozio, vegliare su una scritta in corsivo apposta su una vetrata esterna che in sintesi dice come uno dei sapori della vita risieda nell’odore della terra bagnata dalla pioggia.

Lui, il custode di quella purezza e che in essa si confonde, aspetta un segno che lo renda visibile, anche solo in termini di saluto, all’avventore in fila.
Insegnavo in una scuola dove di Assan ce n’erano molti, triplicati soprattutto per due continenti (Africa e Asia).

A loro il diritto all’istruzione era d’obbligo come per tutti i ragazzi che abitano il Paese. La scuola era un tempo un vero laboratorio di vita. Io ero funzione strumentale dell’Intercultura per vocazione e per nomina. Avevo sempre lavorato nelle retrovie e quando una preside mi chiese di prendere in mano ufficialmente il coordinamento delle attività tra infanzia, primaria e medie, pensavo che sarebbe stato un compito troppo gravoso.

Grazie ai colleghi, alle iniziative ai contributi, esterni che offrivano Comune e territorio, ho attraversato anni in cui ho ritrovato uno dei significati dell’esistenza, mi sono arricchita di umanità. Certo, non ci si può vestire di un manto salvifico, pensare di offrire a tutti i ragazzi il meglio, anche in termini di inserimento lavorativo futuro. Dare però possibilità, sì.

Ogni ragazzo vuole sentirsi speciale, protagonista. La scuola è un immenso palcoscenico dove si può sperimentare, credere in se stessi, scoprire i propri talenti.
Negli anni dell’insegnamento in questa scuola di quartiere, collaboravo con il CIM. (corso ad indirizzo musicale pomeridiano) con le insegnanti di educazione artistica e un anno con l’insegnante di educazione fisica. Si preparavano i ragazzi lungo percorsi musicali e artistico-espressivo-letterario.

Si progettava un momento finale di anno scolastico in cui venivano integrate le attività lungo una linea tematica (fra le tante: L’Orfeo, Le immagini del sogno, Volti di Donna, Eco e Narciso…) e si portavano i ragazzi nel cuore della città di Padova: Il chiostro Albini (dove si trova il complesso museale della cappella degli Scrovegni), I giardini di Palazzo Zuckermann, l’area verde della Golena San Massimo in uno scenario di zona naturalistica tra le mura cinquecentesche e il Canale san Massimo; perché il motto di noi tutti era: ”Educare alla bellezza” ragazzi che spesso non uscivano neppure dal proprio quartiere e non conoscevano l’arte, la natura, la vita dei mercati, la gente, di cui è ricca la città di Padova.

Musicisti, pittori, danzatori, lettori, attori: tutto il mondo trovava in un progetto comune la sintesi delle diverse culture che vivevano con scoperta il senso dell’essere umano che si dà nell’intreccio delle relazioni, fatte di contraddizione e bellezza, tormento e gioia.
Mi dicono come in questi ultimi anni -e non solo causa Covid- si sia smarrita quella che era la cifra identificativa dell’Istituto e come quella bellissima scuola laboratorio sia ormai solo un ricordo.

Mi dicono che molti insegnanti se ne sono andati e non certo per questioni famigliari, pensionamenti alle porte, ambizioni personali.
Vivo nell’attesa che si torni a lavorare nell’unità e tra segmenti di scuola, nel ricreare le condizioni favorevoli a progetti comuni. Ma per compiere questo miracolo, bisogna crederci, smantellare politiche divisive per potere cogliere i frutti tra alcuni anni.

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