Cremifrutto, un passo verso il futuro

DI GIOVANNI BOGANI

 

Nei miei anni ’70 c’erano Christian Barnard, Grace di Monaco, Sandokan, i libri di Verne e di Salgari, i libri di scienze di papà, le figurine dei calciatori, Sandro Mazzola e Gigi Riva, Cinesinho e Kurt Hamrin, Amarildo, Luisito Suarez; c’era Loretta Goggi che faceva “La freccia nera”, e aveva i capelli corti, veniva scambiata per un ragazzo nella prima puntata, enorme sorpresa narrativa che mi lasciava a bocca aperta.

E non c’erano, o quasi, le Brigate rosse, la bomba in piazza della Loggia a Brescia, i primi rapimenti di magistrati, l’omicidio del commissario Calabresi, la lotta operaia. È normale che fosse così?

Che un bambino vedesse una realtà tutta sua, nella quale erano più reali gli sceneggiati tv, il commissario Maigret del commissario Calabresi, o Nero Wolfe e padre Brown erano più veri, più presenti nella mia vita dei Beatles, di Jimi Hendrix, di Jim Morrison?

Già, la musica. Che musica? Peppino Gagliardi e Massimo Ranieri, Gianni Morandi e Gigliola Cinquetti, Little Tony e Bobby Solo. Non esistevano, per me, Francesco Guccini, De Gregori, De André.

Con le loro canzoni disegnavano un mondo diverso, fotografavano la vita, i sentimenti in un modo più complesso, ma io non lo sapevo. E vivevo in una gabbia dove c’erano Iva Zanicchi e Milva, Ornella Vanoni e Mina, e niente e nessuno che mi raccontasse qualcosa di vero, per me.

E poi c’eri tu. A volte mi portavi al Poggetto, poco sopra casa. C’erano dei campi da tennis. Seduto su una panchina, guardavo le partite di tennis. Tòc, tòc, tòc, thumb, frrr. La pallina in rete.

Mi dava una strana pace vedere quei campi rossi, le righe bianche, i giocatori con la maglietta bianca. Il cielo blu, sopra. Ogni tanto passavano piccoli aerei a elica, con dei suoni da Lambretta, più che da aereo. Anche quelli mi davano pace. Piccoli aggeggini in un cielo tranquillo: quando volavano loro, non c’erano temporali in vista, non c’erano venti maligni.

C’era solo il blu del cielo, e il bianco dei cirrocumuli, o di qualche cirrostrato, nuvolette lievi, ciuffi sorridenti nel cielo sopra un bambino.

Nel bar di fronte, qualche volta mi portavi a fare merenda. Era un piccolo bar. Però c’era un tipo di merenda che mi sembrava magica, modernissima. Erano dei cubetti di gelatina, dolci e trasparenti. Così diversi dal pane e zucchero, dal pane vino e zucchero, dall’uovo sbattuto che conoscevo.

Si chiamava Cremifrutto, e già il nome mi sembrava una grande novità, un’audacia linguistica. Un passo verso il futuro. Chissà, forse il cibo degli astronauti assomigliava a quelle scatoline colorate.

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