Ed è subito sera

DI GIOVANNI BOGANI

 

Ho sempre avuto paura dell’infinito come della fine.

Pensavo, da piccolo, a quando sarebbe finita la mia vita.

Ero molto ottimista: pensavo che se morivo a ottant’anni, e ne avevo otto, avevo consumato solo un decimo della mia vita.

E poi pensavo: ho consumato “già” un decimo della mia vita.

No, non potevi saperlo, mamma, e non potevi salvarmi da questi pensieri. Vorticavano mentre guardavo la carta da parati della mia stanza, quelle foglie che si ripetevano all’infinito, come si ripetono i pianeti, nello spazio nero che forse non finisce mai.

Com’è l’infinito? Come sarà, se è vero che dopo la morte vivremo in eterno?

Ci sarà il tempo di leggere tutti i libri che sono stati scritti, e tutti quelli che non sono stati scritti.

Di ascoltare tutte le musiche possibili. Di vedere tutte le partite di calcio che sono state giocate, e tutte quelle che potrebbero essere state giocate: Zamora in porta e Maradona in attacco, Pelé contro Paolo Maldini, Gigi Riva con Balotelli, Ghiggia e Mbappé insieme, nella stessa squadra, con la stessa età.

Ci sarà il tempo di conoscere tutte le specie animali, tutti i luoghi del mondo, di andare e tornare da Siviglia, da Barcellona, da Istanbul, dall’isola di Giava e dall’isola di Guam dove a migliaia sono ammalati di quella malattia che chiamano lytico-bodig, potremo ascoltare tutte le musiche di tutte le epoche e di tutti i luoghi, i canti armonici difonici dei mongoli e le musiche di chitarra di Andy McKee, che la fa suonare come un’arpa.

Potremo entrare nella testa di Beethoven mentre componeva l’Eroica, potremo essere in tutti i luoghi, anche nelle Città Invisibili di Italo Calvino.

Ma alla fine, alla fine del tempo, alla fine delle galassie del tempo, tutto finirà, pensavo, tutte le possibilità finiranno.

E il tempo nel quale vivere, invece, non sarà ancora finito.

Che cosa farò, io, quando avrò finito tutto, ogni cosa da vedere, da conoscere, da ascoltare?

Come farò a passare l’eternità, che a volte mi sembra così difficile arrivare all’ora in cui mi addormento?

A volte non mi addormentavo mai, proprio come ora. E pensavo a queste cose, ma non potevo dirtele.

Mi faceva paura l’infinito. Mi fa ancora paura.

E se non ci dovesse essere nulla, alla fine di questa passeggiata, mi farebbe ancora più paura.

Se non dovesse esserci nulla, alla fine di questo vagare incerto, alla fine di questa sala d’attesa durata cinquanta, o sessanta, o settant’anni, mi farebbe ancora più paura. Camminiamo per queste strade, facciamo una gita all’Ipercoop, ed è subito sera.

Siberia

Comunque, non ci pensare mamma, non aver paura. Tutto questo discorso, cominciato tre giorni fa, era per dirti che non hai mai attaccato, non hai mai guardato con diffidenza, con ostilità nessuna delle ragazze che vedevi, ogni tanto, apparire.

Non hai mai parlato loro con nessun senso di superiorità. E se eri perplessa, te lo tenevi per te.

Spesso ti affezionavi: perché con me era così difficile parlare, mentre con loro era sempre più semplice.

Erano più gentili, e potevi chiedere a loro quello che non osavi chiedere a me. Se stavo bene, se lavoravo, se ero triste o felice.

A me, con il passare degli anni, non osavi chiedere più niente.

Non ti sei stupita neppure quella volta. Quando hai visto arrivare, a casa – avrò avuto vent’anni – la ragazza di Torino. Quella che avevi visto altre volte. Ma stavolta, aveva un altro nome.

Era lei, non c’era dubbio. Ma aveva un altro nome.
E non riuscivi proprio a capire.

Forse è una cosa che accade più spesso di quanto si pensi. O forse no.

O forse avevamo vent’anni. E facevamo delle cose che oggi sembrano impensabili.

In quella casa fredda, a Torino, dove il bagno era fuori, praticamente sul balcone, e veniva chiamato “la Siberia”.

In quella casa con una moka, poche stoviglie sbreccate, e voi due.

Identiche. Mesi passati ad amare te, la ragazza che mi aveva scritto la frase di Roberto Vecchioni, che mi aveva tatuato l’anima.

E vedere sempre, nella stessa casa, senza mobili, senza televisione, senza niente altro, lei. Identica, ma forse più bella. Lo dicevate, di voi: una era etica, l’altra estetica. Passavano le settimane, venivo su, l’inverno era sempre più gelido.

Passò una primavera, un’estate, un autunno, un inverno. E venne ancora primavera. Litigavamo, con la ragazza della frase di Vecchioni, con la ragazza delle poesie di Pavese, con la ragazza che non amava il cinema, arte minore, roba da pagliacci, sottoprodotto del Teatro.

E l’altra, silenziosa come un gatto, aggraziata come una ballerina, leggeva letteratura francese, accoccolata su una poltrona sfondata. Fuori, Torino era il tram numero 15 che sferragliava, vecchio e rugginoso.

Erano auto scarburate, vecchie 128 tutte rotte, bar pieni di calabresi e siciliani. E tu, la gemella con i capelli un po’ più lunghi, con gli occhi appena più grandi, con la bocca appena più sensuale.

Un giorno andammo insieme a comprare qualcosa, la primavera stava per sbocciare.

Si fanno tanti errori, nella vita. E quello fu uno dei peggiori. Pensare che fosse possibile amare ancora più forte una ragazza che era identica, tranne un particolare su un milione, alla ragazza che avevi amato.

Pensare che fosse possibile resistere, nel silenzio, nella stessa casa. Con la tensione alta come sui pantografi del treno.

Immagine tratta dal web

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