Edvard Munch, Winter in Kragerø

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

Quando ci riferiamo ad Edvard Munch, non possiamo fare a meno di rilevarne la straordinaria modernità: una sorta di contemporaneità tale da permettere di comprendere cosa sia quella reale forza del tempo letteralmente surclassata dall’arte.

Rappresentando un punto di snodo tra Simbolismo ed Espressionismo, si arriva ad una assenza di collocazione temporale, tanto che Il grido, talmente straordinario nella propria originalità da meritarsi, oltre alle innumerevoli pubblicazioni, una squarciante citazione nel film Afterhours, di Martin Scorsese – una inquietante statua, nella pellicola definita ‘una versione e tridimensionale del quadro’ ne domina gli oscuri, intimi meandri – potrebbe tranquillamente non sfigurare anche accanto ad opere d’arte a noi contemporanee.

Quell’urlo infinito, destinato a riecheggiare per l’eternità, che dimostra al contempo sia l’indiscutibile grandezza creativa dell’artista, sia il più difficilmente accettabile rovescio della medaglia: l’autore norvegese è uno di quei rari casi di pittore di un solo quadro.

Sì, poiché se ne analizziamo l’intera produzione pittorica, troviamo indubbiamente alcune sporadiche, felici intuizioni, ma non possiamo esimerci dal riscontrarne la destrutturazione, che se da un lato lo connota, rendendolo potentemente anticlassico, dall’altra ne dimostra impietosamente i limiti tecnici.

A Munch non interessa dipingere in modo impeccabile, al contrario egli desidera fissare emozioni, così che molti colleghi, pur essendo, in quanto ad abilità artistiche, a lui nettamente superiori, successivamente soccombono al suo cospetto di incredibile attualità.

È il motivo per cui altre sue opere, ad esempio Il giorno dopo, del 1895, in cui la protagonista giace su di un letto disfatto – tema, all’epoca, piuttosto popolare – lasciando all’osservatore la possibilità di desumerne il contesto, non spiccano per tecnicismo, ma riescono a distinguersi per brillantezza, in parte sostenute ed aiutate da un titolo fondamentale nel qualificarle.

‘Il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo che attraversava la natura’. L’intento di dare voce al grido angosciante della solitudine in contrasto con l’illusorietà dell’ottimismo positivista, attraverso una travolgente espressività nel segno della scoperta degli abissi della psiche.

È il grido, ma potrebbe trattarsi anche di altri dipinti. Non cambia la sostanza di quegli scorci roboanti in preda a furori vibrazionali.

Il paesaggio di Kragerø non rappresenta una rilevante eccezione: Munch persiste nell’utilizzare linee ondeggianti in grado di avvolgere le cose soffocandole, e ne modifica i colori naturali ottenendo un effetto frustrante.

Kragerø è una cittadina norvegese, in realtà piuttosto vivace, che l’artista scelse numerose volte a corredo dei propri spettrali istinti – in loco è tuttora possibile partecipare al Munch Tour, iniziativa turistica locale volta a mostrane gli angoli più reconditi e ammalianti – e tutto sommato poco importa la raffigurazione stagionale: primavera o inverno, stanti alcune prevedibili varianti cromatiche, risuonano angosciate di concreta mestizia, a tratti ingentilite da prospettive più delicatamente lambite, per poi riprecipitare in un incombente abisso.

Munch modula frequenze riproducendo introspettive sensazioni e senza dare troppe spiegazioni, cosa che fece, al pari di Samuel Beckett sul personaggio di Godot, anche per la sua opera più nota.
Indiscutibili ed affascinanti aloni di mistero, oppure possibilità per l’osservatore di assurgere a protagonista, ulteriormente coinvolto, con la facoltà di attribuire egli stesso un’identità, a patto di ricercare e trovare la risposta dentro di sé…

Edvard Munch (1863-1944), Winter in Kragerø, 1912, olio su tela, 132.5×131.5 cm., Oslo – Munch Museum
Immagine: web

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