Film da vedere (o rivedere): ‘La veduta luminosa’ di Fabrizio Ferraro. Con Alessandro Carlini e Catarina Wallenstein

di Luca Biscontini

La veduta luminosa è un film del 2021 di Fabrizio Ferraro. Prodotto da Fabio Parente, Luis Minarro, Marta Reggio e Marcello Fagiani, con la sceneggiatura, la fotografia e il montaggio di Fabrizio Ferraro, La veduta luminosa è interpretato da Alessandro Carlini, Catarina Wallenstein e Freddy Paul Grunert. Il film ha partecipato alla 71esima edizione del Festival di Berlino, nella sezione Forum, alla Festa do Cinema Italiano 2022 (Altre Visioni), a Los Angeles – Italia 2021 (Italian Worldwide) e alla Viennale 2021 (Works by Fabrizio Ferraro). La veduta luminosa è disponibile anche su RaiPlay.

Trama
Uno stanco autore, il sig. Emmer, e Catarina, l’assistente di un produttore assente, intraprendono un viaggio alla ricerca dei luoghi di Hölderlin, per un progetto impossibile sul poeta tedesco. Durante il viaggio le ispirazioni si rivelano però lontane, ostacolo per la realizzazione di qualsiasi opera. Un canto d’amore per la Natura sofferente.

“Oggi ci troviamo in un’epoca in cui il cinema sembra assente, oscurato da un orizzonte filmico saturo. Un’assenza, però, che apre strade di grande sfida. Uno (il film) richiede concretezza, responsabilità, forze recitanti e reagenti nella dinamica dell’oggetto finito, l’altro (il cinema) si colloca in quella zona libera da vincoli, dove gli elementi concreti che tracciano quel respiro indefinito, negando la zona circoscritta del film, si affollano e si sovrappongono continuamente. Accade raramente che siano una cosa sola, forse mai in un film qualsiasi, ma nella somma delle singole parti, nel loro canto reciproco, incessante, irriducibile e per certi versi eccezionale”.
(Fabrizio Ferraro)

“Il tempo dell’andare, del camminare “verso”. Il luogo da raggiungere è quello di Hölderlin, della vita abitante di una poesia che si disperde e si smaglia proprio là dove sembra rivelarsi (e su cui il nuovo libro di Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin, riflette). È come se Ferraro avesse filtrato il suo lavoro radicalmente sulla trasparenza e la compenetrazione dell’«abitare poeticamente il mondo» (per dirla con un filosofo come Heidegger, che proprio dai luoghi hölderliniani immaginava nella poesia e nella possibile rigenerazione del divino, a partire dal suo congedo, una salvezza) e insieme avesse, altrettanto radicalmente, aperto varchi a una visione la cui possibilità si dà nella sua stessa impossibilità di esaurirla. Quello che apparentemente potrebbe essere un viaggio di sopralluoghi diventa man mano lo stesso, intimo, senso del film.

Quella che per il succedersi regolare del mondo appariva come follia fu una testimonianza estrema del poeta di abitare là dove apparentemente nulla accade, se non il procedere eterno della natura («Non mi succede nulla» ripeteva Hölderlin e il suo contemplare il paesaggio dalla finestra è in tal senso significativo), eppure tutto sembra sprigionare ed emanare in un accadimento verso cui l’unico atto possibile è il guardare. Guardare la natura là dove i boschi sacri agli Dei, che sono scomparsi, hanno lasciato una sorta di incavo, di radura, di richiamo alle immagini, al percepibile in quanto tale. Questa forse la ragione per cui Ferraro gira interamente il film usando il colore (di cui solo raramente, come in una parte di Sebastiano aveva fatto nel 2016): dare accesso al puro esistere dell’accadere visibile della natura, nella sua manifestazione, davanti la macchina da presa, condensarne e disfarne la gradazione buio/luce.

Il film sosta nella indecidibile aporia tra il realizzare un film e avere accesso al mistero del cinema («né un’arte, né una teoria, ma un mistero» dice Godard). I due, che erano partiti in auto, a un certo punto (dopo uno splendido momento in cui Caterina canta una canzone portoghese) lasciano l’auto, per decisione del regista, e proseguono a piedi. Una sorta di forza di attrazione e inerzia, di ribellione e di rassegnazione, ma al fondo un movimento d’amore, tiene i due immersi nella ricerca di qualcosa che sempre più avanzando si sottrae. Tale nascondimento paradossalmente lascia il posto, di passo in passo, a una rivelazione.

Nel film la sospensione e il “punto di fuga” delle immagini convergono verso: «Quel qualcosa dall’impossibile comprensione: la vita immediata che sfugge mentre si cerca di contenerla. E questa fuga, che canta una concretissima presenza astratta, è proprio un’arte, l’arte della fuga». Tutto accade come se l’adesso della macchina da presa, l’apprensione dell’occhio (in camera a cogliere il bagliore che fugge sempre più in là c’è Felice D’Agostino, altro radicale e “non riconciliato” cineasta, in coppia con Arturo Lavorato) si disseminasse nel tempo di una ripresa che avanza verso l’infinito “fuori tempo”, fuori dal film stesso, per cogliere qui ed ora il depositarsi di un cinema ancora possibile in una dimensione altra, nascosta nella vita abitante”.
(Bruno Roberti, Fata Morgana, 15 Marzo 2021)

 

Luca Biscontini per MondoSpettacolo

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