Ho sempre paura, prima di partire…

DI GIOVANNI BOGANI

E come sempre prima di partire ho paura. Ma di che cosa, esattamente?

Di non svegliarmi in tempo e perdere il treno. Che il treno abbia un incidente. Che accada qualche cosa di spiacevole, fuori da queste stanze sempre uguali. Che io non sia capace di contrastare il mio fallimento. Paura di perdermi dentro il mondo, di non essere in sintonia col mondo. Paura di essere troppo piccolo.

Qualche volta, scrivendo pagine come questa, mi sono messo a piangere. Qualche volta ho capito che cosa mi faceva stare male. Poi me lo sono dimenticato, qualche minuto dopo.

Per la maggior parte delle volte, rileggendo, non ho trovato più niente. Quella cosa che stava dentro di me – la sensazione, il pensiero, lo stato d’animo – non era rimasta impigliata dentro le parole.

Nelle parole c’era qualche idea, qualche particolare, il nome di qualche oggetto. Ma non c’era quello che sentivo in quel momento. È così difficile, creare una macchina che rigeneri le sensazioni che hai vissuto, quel giorno, quell’istante.

E così, già adesso non riesco a raccontare questa giornata. Questa mattina. Questo treno preso con ostinazione, con caparbietà, tirando su per lo scivolo del binario 16 uno zaino pieno di libri, i miei libri che non legge nessuno.

E camminando veloce, come un soldato, sono arrivato in tempo al treno, facendo il primo chilometro della mia giornata. No, di meno. Saranno 400 metri. Ma se li fai con uno zaino addosso in cui hai messo tutto il tuo passato, pesano.

Il mio passato sta nel mio zaino. Stamattina lo racconto, a chi non si sa. Devo raccontare la mia storia di “autore” che si pubblica da sé. Senza una casa editrice. Un essere ancora anfibio fra lo sfigato e il futuro.

Mi hanno pagato un biglietto di treno per Bologna, il resto faccio da me. Ieri sera mi sono fatto da mangiare abbondante, che non si sa mai. Pasta col pomodoro, filetto di merluzzo alla mugnaia della Coop, e una frittata di due uova.

Anche un po’ di valeriana, che mi piace tanto con l’aceto balsamico, forse perché c’è lo zucchero dentro. Ho mangiato tanto, perché oggi per risparmiare non mangerò.

Il biglietto di treno è di prima classe, una cortesia che non avevo chiesto. Ed è flex: che bello, posso cambiare l’orario della partenza e del ritorno. Potrei anche rimanere a Bologna dal mio amico Filippo, e ripartire domani.

Nel treno ci sono un uomo e due donne, sui cinquant’anni. Viaggio aziendale, vanno a un meeting dove sentiranno parlare l’allenatore di una squadra di pallavolo con un discorso motivazionale, di cui a loro non frega un cazzo, meno di un cazzo.

La donna davanti a me ha il libro del principe Harry, e dice “poverino”, come se fosse una persona che lei conosce davvero. L’altra donna mi guarda con un po’ di interesse, come se fossi un’ipotesi di avventura appena appena pensata. È abbronzata, ha anelli alle mani, sicuramente un compagno o un marito, i capelli con le mèches.

Curata, si percepiscono ore di creme sulla pelle abbronzata, negozi nei quali ha comprato abiti e gioielli. Lei non ha un libro, parla di cose aziendali con l’uomo che ha un golfino color celeste ed è calvo, i capelli solo ai lati della testa, come Renato Scarpa, quell’attore che faceva la spalla di Verdone in “Bianco, rosso e Verdone”.

Parlano di cose che avverranno fra due mesi, fra quattro mesi. Probabilmente stanno organizzandosi le vacanze. Chissà che lavoro fanno. Ma non me ne importa molto.

Scendo dal treno. Bologna. Ma adesso vado da un’altra parte. Verso la Fiera, non verso il centro. Non vedrò la Montagnola, il parco che ho amato fino allo struggimento. Non vedrò via Nazionale, quella via sotto i portici dove c’era casa di Claudio Lolli, il più grande poeta, il più grande cantante che io abbia incontrato nella mia vita, il più grande poeta.

Mi rendo conto solo ora che tante cose, nella mia vita, sono accadute e non accadranno più. Che ho già vissuto certe cose, e non ne vivrò altre simili. Ho voluto bene a Claudio Lolli, poeta gentile con i capelli spettinati e le spalle strette, sono stato insieme con lui a chiacchierare in un giardino, ho parlato con lui di politica, poco delle sue canzoni.

Gli ho voluto un bene grandissimo, a lui che amava in quel modo così disarmato, così poetico e semplice, con le parole che stanno nelle sue canzoni e nel suo libro, il libro d’amore per sua moglie. Un uomo innamorato di sua moglie, che ancora a sessant’anni gli sembrava una creatura sfuggente, più forte, più misteriosa di lui, capace solo di offrirle il suo amore desolato.

Penso solo adesso che Bologna è per me la città di Bulgarelli, di di Francesco Guccini, di Claudio Lolli, di Lucio Dalla. E anche se per Guccini è una città di adozione, per me Bologna è Guccini. Via Paolo Fabbri 43, dove andai a suonare alla porta.

Già, un giorno dovrei raccontare di quell’incontro. E non dovrei aspettare troppo, perché poi anche io mi dissolverò, e non lascerò traccia neppure di quel poco che ho vissuto.

Nelle strade dove sto andando io in questo tardo mattino non c’è Guccini, ci sono tanti arabi, cinesi, piccoli negozi di ferramenta o lavanderie, o minimarket. Entro in un negozio di ferramenta, chiedo al ragazzo cinese se può copiarmi la chiave del bauletto dello scooter.

Si è staccata dalla sua capocchietta di plastica, mi è rimasta in mano. La perdo di sicuro, con il casco o lo zaino chiusi dentro il bauletto. Lui la guarda, ma poi mi fa capire che non ha le matrici per copiarla. Io d’altra parte ho fretta, lo ringrazio, spero sempre che i cinesi sappiano fare tutto.

La Fiera la trovo, con un po’ di difficoltà. Vedo la fila dei taxi, come fuori da un aeroporto. Ho il biglietto omaggio che ho scaricato ieri sera, facendo tutte le procedure, da bravo bambino. Una donna mi scannerizza il codice a barre, entro. Basta un codice a barre, se ce l’hai entri, se no, no.

Trovo la sala dove dovrò parlare. Ascolto un ragazzo sui trentacinque anni che spiega che pubblicare da sé su Amazon è la soluzione ai mali del mondo, che ci farà diventare ricchi, e lo spiega attraverso delle slide di un power point con tutti i punti del suo discorso.

Se fai pubblicità su Amazon al tuo libro, dice, lo vedranno in milioni di persone quel tuo annuncio, e su milioni di persone decine di migliaia lo compreranno.

La copertina, dice, deve essere consona con il contenuto del libro. Un libro di storie di terrore non può avere un’immagine lieta, con i fiorellini, in copertina. Invece, penso, sarebbe un’idea fighissima. Comunque, terrò a mente che posso raggiungere MILIONI di lettori con un semplice annuncio su Amazon. Milioni.

Se è così vantaggioso, questo modo di fare pubblicità, dovrebbero essere a centinaia di migliaia quelli che lo usano. “E poi”, aggiunge dispensando l’ultima perla di saggezza proiettata verso il futuro, “voi siete produttori di contenuto: se il vostro libro è brutto è possibile che non venda”.

Sono disperato.

Sarò così anch’io? Spiegherò quello che tutti sanno, ma con l’aria di dirla grossa? Con l’aria di saperla lunga? Probabilmente anche quel ragazzo ha fatto fatica per organizzare quel discorso, per organizzare i concetti, per fare il suo power point.

Vorrei non dire banalità. Vorrei dire qualcosa di vero. Non vorrei fingere di avere avuto successo, non ne ho avuto, e quelle minuscole soddisfazioni di essere uno degli autori più venduti sulla piattaforma ilmiolibro, o di avere vinto un premio in un concorso in una cittadina di provincia, non vuole dire nulla.

Nessuno sa niente del mio libro, quasi nessuno ha ascoltato le mie parole. Io so che alcune delle persone che le hanno lette, poi ne sono rimaste toccate, sfiorate forse un po’ appena sotto alla superficie. Non sono solo scivolate sulla pelle. Magari qualche parola è rimasta attaccata ai pensieri di chi mi ha letto. Poche, immagino.

Siamo tutti sconfitti, tutti noi che abbiamo un ego smisurato, con i nostri libri che nessuno legge. O se li leggono in mille, in mille in confronto alla massa immensa di tutti gli altri, ai milioni e ai miliardi dell’umanità indifferente, che cosa abbiamo vinto? Io non sono riuscito a farmi ascoltare, in tutta la mia vita.

Volevo essere ascoltato, essere semplice e interessante. Volevo spiegare le cose agli altri, e in cambio trovare sorrisi, forse trovare persino amore. Non mi è mai importato niente dei soldi, ma cercando di scavare parole, scavare parole all’informe, come le braccia dei Prigioni di Michelangelo quando escono dal blocco di marmo, io speravo di trovare riconoscenza, trovare amore.

Se ho scritto, nella vita, è per essere capito, per essere amato. Ma tanta gente non ha neppure questa fortuna, non ha nemmeno la scrittura, ha solo quaderni infiniti di giorni tutti simili, nei quali non aspettarsi di essere amato.

Anche i miei giorni, adesso, sono così, fra il caffè appena sveglio e le partite di Champions alle nove di sera, fra le passeggiate al parco, le ore in biblioteca, i corridoi del supermercato, e infine le ore in cui tutti dormono e io non riesco. Sono tutte ore senza amore, senza la speranza di un amore.

Sono tutte ore che non hanno volto, non hanno nome, non hanno spazio, non hanno orizzonti, non hanno sapore, non hanno odore, non hanno sorrisi, hanno solo un silenzio a mascherare il dolore.

Immagine tratta da Pixabay

 

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