In bicicletta a Natale

DI GIOVANNI BOGANI

 

Fra poco è Natale.

Ci pensavi da molto tempo prima, ogni anno. Mi chiedevi “A Natale vieni a pranzo da me, vero?” e volevi fissare al ristorante.

Forse una volta ci siamo persino andati. Dai fratelli Briganti, naturalmente. Perché altro posto non avremmo mai saputo immaginare.

E anche io, che sono finito a mangiare in ristoranti a Mosca, e in Sudafrica, e al Nikko Hotel di Nuova Delhi, alla fine non avrei saputo portarti in nessun altro posto, perché quel posto sapeva di casa, di affetto, con Lionello e le sue sopracciglia cespugliose che venne a farti tante feste, ti aveva visto negli anni ’70 e ti rivedeva nel secolo successivo, ma si ricordava ancora.

Non mangiasti molto, quella volta. Arrivare in quella piazzetta, a trecento metri da casa, ti sembrava già un viaggio intercontinentale. Anche io ero inquieto, imbarazzato forse, e non riuscii a trasformare neanche quel Natale in qualche cosa di dolce, di accogliente, per te.

Tutte le altre volte, era la sala da pranzo di casa tua che ci accoglieva. E quel rito di portare le cose dalla cucina al tavolo tondo. L’arrosto, che secondo te non doveva mai mancare. Io con la leggera nausea di chi è sveglio da dieci minuti, e vorrebbe solo caffè.

A volte dovevo proprio chiedertelo, prima di tutto il magnifico pranzo che avevi preparato da settimane, un po’ di caffè. Era l’unica cosa che desideravo. Non la vitella che chissà quanto costava, non le lasagne preparate da Vera, prima di andare a celebrare il Natale con la sua famiglia.

Non il vino Tavernello che mettevi in tavola, versato nella caraffa di cristallo di Boemia. Non ci avevi mai capito tanto con i vini, tu. E io non pensavo mai che sarebbe toccato a me portarti una bottiglia degna di quel nome. Però, negli ultimi anni, qualcosa devo averti portato. Del Morellino di Scansano, insieme a qualche panetton un po’ più divertente. Ma poi, tanto, non riuscivamo mai a dirci nulla.

Venivano le tre e mezza, rimanevano solo stoviglie da sparecchiare, le portavo ordinatamente in cucina, tutti quei piatti sporcati per mangiare senza voglia, e Natale era già finito. Tu che ti mettevi a letto, il pomeriggio con la sua luce grigia o bluastra.

E io che chiudevo piano la porta e me ne andavo. Uno di quei pomeriggi me ne andai in bicicletta, nella città gelida e ancora semiparalizzata dagli effetti del pranzo di Natale. E verso le cinque, giù dal cavalcavia delle Cure, infilai con la ruota in una scanalatura dell’asfalto e finii per terra. Solo, sull’asfalto, il pomeriggio di Natale.

Mi porto ancora, su un giaccone, gli strappi di quella caduta, come se fossero le medaglie di una Resistenza tutta mia, combattuta in silenzio.

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