In ricordo di Joseph, diventato uno dei tanti figli del mare…

DI CINZIA ANNA TULLO

 

Perché proprio qui?

Perché non costruirmi su uno di quei piroscafi eleganti, che trasportano gente bella e raffinata, dove il fruscio di gonne di seta, sottile e garzato, vela ritmicamente caviglie agili e sottili?

Sono così stanco. Mi calpestano senza sosta incrostandomi con la loro disperazione, con colate di emozioni che, dense come lava, mi impietriscono.

Riesco a respirare un po’ solo se restano stivati giù, in terza classe, quando il mare è in tempesta, come adesso, e onde gigantesche lavano dalle mie ringhiere i sospiri della tonnellata umana, che se ne resta nelle cucce di questa carretta del mare, che qualche matto ha battezzato Utopia.

Il vento buio mi dice che resteranno a lungo alloggiati sottocoperta, gli uni sugli altri, in quei grovigli di gambe e braccia dove le identità si annullano e la carne umana diventa massa informe.

Ma il tempo cambierà e domani sarò ancora devastato dal loro insostenibile peso. Vocianti, si accovacceranno, col piatto tra le gambe e un pezzo di pane raffermo in mano.

Il matto di turno scorgerà, tra le brume che salgono dall’acqua, paesaggi tirati su dalla fantasia e “ Eccola! Eccola! L’America!” griderà, puntando un dito verso il sogno che, veloce, evaporerà al primo soffio di vento.

Tutto si ripete, giorno dopo giorno, come in un incubo ricorrente.
Sono sempre sporchi. Di sicuro dormono vestiti , tra fagotti e misere valigie, dove i bambini lasciano incolpevoli pipì; i deboli di stomaco vomitano; e dove pulci e zecche hanno già trovato il loro Nuovo Mondo.

Nell’immensa distesa del mare, la nave è diventata così piccola che ormai si confonde con gli scuri dirupi d’acqua che salgono e scendono incredibilmente ripidi.

Navighiamo a singhiozzo, in balia di una tempesta crudele.
E questa sensazione cos’è? Da dove arrivano gli scricchiolii rauchi come voci di animali feriti? Da dove il subdolo rombo che si mimetizza nelle urla del mare, e greve alita sulla nave?

Sono stordito. Sento la mia ferrea struttura disgregarsi. Milioni di molecole mi danzano nella pancia, separandosi e riunendosi. Io non sono più io.

Solitudine e buio, mentre tuoni spezzati terrorizzano il cielo che si tinge del livido biancore della paura.
Il fondale è di una luminescenza gloriosamente silenziosa. La violenza del temporale si è finalmente sciolta nell’immenso abbraccio di una discesa dolce.

Piccoli scogli dalle chiome azzurre disegnano un paesaggio da fiaba. La massa umana non mi appesantisce più. Sono tutti sciamati fuori, trasfigurati dalla felicità e dallo stupore.

Danzano tra le attinie, raccolgono stelle marine. Mani lunghe e sottili sfiorano piccoli pesci scintillanti, che somigliano a petali, gialli, rossi, viola.

Si muovono leggiadre intorno al collo di una bottiglia rotta, vicino all’orlo di un piatto sbrecciato, sul fondo di una valigia che, come una grossa conchiglia, apre le valve in mezzo ai verdi ciuffi di una foresta marina.

Io mi sono adagiato su una prateria di posidonie dove mille e mille cavallucci marini arricciano le code, nel verde bagliore di un’elegante pelagia. Non ho mai visto tanta bellezza, mai, prima d’ora, ascoltato le ovattate armonie dell’acqua.

Io non sono più io.
Non sono più il ponte di un piroscafo. Non unisco e non divido, staccato per sempre dai bulloni che mi bucavano e implacabili mi obbligavano a rigare dritto, sulla scia di correnti capricciose.

Ora ho gambe per muovermi, e braccia per nuotare.
Ci teniamo tutti per mano; danziamo intorno alla chiglia della nave trasfigurata in una piccola vasca in cui ristagna, sereno, il tempo, dove passato, presente e futuro si sciolgono l’uno nell’altro.

Avvolti dall’ abbraccio totale dell’acqua, attraversiamo, lievi, la lunga striscia vibrante di luce, i cui contorni sono appena un po’ sfocati.
Ed io, io sto per attraversare, con tutti loro, il Ponte. ”

 

 

l’11 novembre scorso, in uno dei tanti naufragi nel Mediterraneo, è affogato Joseph, di sei mesi. Veniva dalla Guinea con la madre, sopravvissuta.
Questo piccolo racconto è dedicato a lui e alla sua mamma, ma anche ai tanti italiani che all’inizio del secolo scorso si sono imbarcati in cento e cento viaggi della disperazione.

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