Intervista a Marco Filiberti, regista unico nel panorama italiano

DI GIOVANNI BOGANI

Ci sono registi che fanno storia a sé, nel cinema. Come Marco Filiberti, cinquant’anni, bel volto alla Helmut Berger, l’attore adorato da Luchino Visconti; o, se volete, alla Amedeo Nazzari. Nato a Milano, studi di musica classica alle spalle, pianoforte e direzione d’orchestra, Filiberti dirige film fulgidi e complessi, opere d’arte totali: film che uniscono musica, pittura, danza, mitologia, filosofia. Riflessioni sul mondo, sul destino umano. Non è un caso che li chiami “opere cinematografiche”.

La sua ultima opera cinematografica, “Parsifal”, ha ricevuto il premio Città di Siena all’ultimo Terra di Siena film festival. Contemporaneamente, è stato premiato come miglior film al Rhode Island film festival, negli Stati Uniti, dove ha già iniziato il cammino che lo porterà nelle sale. È un film possente, che Filiberti ha creato con entusiasmo e lucida follia. Girato quasi interamente in Toscana, dove Filiberti da anni ha trovato rifugio. Una Toscana resa ancora più pittorica, misteriosa, eterna.

“Parsifal”: ovvero, il poema cavalleresco per eccellenza, scritto da Chrétien de Troyes in pieno Medioevo, la prima opera che accenni al Sacro Graal, il calice dell’Ultima cena di Gesù. Ma “Parsifal” è anche l’opera titanica che Richard Wagner scrisse, ispirato e sconvolto dalla vista del Duomo di Siena, quando soggiornò nella città del Palio nell’autunno 1880. Fu a tal punto emozionato dalle architetture vertiginose del Duomo che volle ricostruirle nelle scenografie del “suo” teatro di Bayreuth. Le due suggestioni, letteraria e musicale, si fondono nell’opera di Filiberti, che ne è anche interprete nel ruolo di Amfortas, in mezzo al cenacolo di attori della Compagnia degli Eterni Stranieri, fra i quali spicca Matteo Munari nel ruolo di Parsifal.

Filiberti, come riassumerebbe il suo “Parsifal”?
“In me è nato come concetto musicale, prima ancora che cinematografico: è una ricerca dello spirito, un interrogarsi sulle grandi domande, è il lavoro in cui sono riuscito, nel modo più compiuto, a mettere tutto me stesso. È stata un’immensa traversata, iniziata in solitaria, cui si sono uniti meravigliosi compagni di avventura, dalla scenografa Livia Borgognoni al costumista Michele Gelsi, al musicista Paolo Marzocchi, e agli attori che si sono accesi di entusiasmo per il progetto”.

Ha scelto, come set, la Toscana. La Toscana più bella, più armonica, più pura.
“La Toscana possiede, in modo insuperabile, una connessione fra civiltà e natura, fra arte e paesaggio. Io cercavo una riconnessione con le sorgenti della sacralità: e in nessun altro luogo avrei potuto trovarla in modo tanto evidente. Nella Toscana, in questa Toscana non da cartolina, non agiografica, trovo la sorgente dello spirito filosofico e spirituale che connota la nobiltà dello spirito”.

In quali luoghi esattamente avete girato?
“In Val d’Orcia, tra Castelvecchio e la Rimbecca; nella Cripta dei Longobardi ad Abbadia San Salvatore; nelle Grotte di San Francesco a Sarteano, i luoghi nei quali frate Francesco soggiornò con frate Leone. L’abbazia di San Galgano, con la sua assoluta meraviglia, è stato uno dei luoghi chiave delle riprese, così come i Bagni di San Filippo a Castiglione d’Orcia, la Pieve di Corsignano a Pienza. E il Ponte della Pia, presso il castello di Montarrenti, a Sovicille. Non un solo fotogramma è stato ricostruito in studio, non un solo sfondo è stato aggiunto al computer. Quella Toscana che si vede nel film è tutta vera, reale, resa ancora più bella dalla fotografia di Mauro Toscano”.

Il film cita – o si ispira a – Fassbinder, Derek Jarman, Visconti, Fellini. Per lo spettatore, è un viaggio impegnativo.
“E così deve essere: io sono contro la semplificazione del linguaggio, contro un sistema che anestetizza tutto, che rende tutto ‘facile’ e privo di sostanza. E del resto, la via di accesso ad un film del genere non deve neppure essere razionale, ma intuitiva, osmotica, empatica”.

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