«La giusta distanza», un bel film di Carlo Mazzacurati

DI GIOVANNI BOGANI

Ho riguardato ieri sera su prime “La giusta distanza”, un film di Carlo Mazzacurati con Valentina Lodovini. E non ho potuto fare a meno di pensare: ma che bello, questo film.

E che autore grande era Carlo Mazzacurati. C’è una trama “gialla”, sì, e c’è anche – ovviamente – qualche sorpresa nel plot, ma capisci subito che il punto non è lì.

E quello che senti, mentre vedi il film, è: che amore per le persone che aveva, Mazzacurati. C’è un attore che io non conoscevo, marocchino, che recita come se non recitasse. E gli vuoi bene, subito. C’è Valentina Lodovini quasi all’esordio, che sprizza luce da ogni centimetro.

C’è una provincia padana, pianura infinita, periferia estrema di tutto, che è un mondo. Che è “il” mondo di Mazzacurati, lui la capisce. Una provincia che è stato il cuore dell’egoismo leghista di tutti questi anni, che è stata il cuore del “prima noialtri”.

E anche in questo film, quanto lo vedi, il “prima noialtri”. Lo straniero che è costretto a brindare, derogando ai dettami della sua religione, per amor di quieto vivere: lo straniero che resterà sempre straniero.

Un paese dove, normalmente, si prende una moglie scelta online, sui siti di matrimoni: e quanti lo facevano, e probabilmente lo fanno, lì e in tutta Italia. Adesso è molto più facile, ovviamente.

Un mondo di provincia che Mazzacurati ha raccontato, bene, in tutti i suoi film: “Il toro”, “Il prete bello”, “Notte italiana”, “La lingua del santo”. Non mi ero mai accorto di quanto fosse radicato nella sua terra. E insieme, quanto cinema c’è nel suo raccontare quella provincia.

C’è Chabrol, ci sono le storie minuscole e un po’ sordide che amava Simenon, c’è Pietro Germi, persino un po’ di Fellini, con una matta che appare nella nebbia, sul fiume. C’è Antonioni, con le sue nebbie, con i suoi personaggi perduti del “Grido”, forse anche Bertolucci.

Forse c’è anche quel mondo che Andrea Segre descrive, pochi chilometri più lontano, in “Io sono Li”, con i suoi chioggiotti ottusi e collusi, l’uno con l’altro, a tenere la giusta distanza con gli “altri”, gli stranieri. Io non sono bravo a trovare riferimenti, ma questi li vedo. E poi c’è il rispetto che ha per ogni personaggio, la voglia di non farne delle caricature, mai.

Poi, anni dopo, sarebbero venuti “La ragazza del lago” e “La ragazza nella nebbia”, anche lì due thriller di provincia, con l’acqua e le ragazze: film diversi, con i loro intrighi polizieschi più complicati, la voglia di creare ambiguità, suspense, giochi con il cinema.

Qui c’è uno sguardo più carnale, più innamorato, verso la vita della gente.

Poi, forse mi piace perché è un film sul giornalismo, il mestiere del quale sono innamorato (non ricambiato, ormai, direi), e perché c’è un ragazzino puro che a diciott’anni vuole farlo, questo mestiere, come lo volevo fare io.

O forse, semplicemente perché c’è Valentina Lodovini, con la sua semplicità affettuosa, mai troppo distante dalla vita reale.

Peccato che se ne sia andato, Mazzacurati. Lo avevo incontrato diverse volte: quando stava montando un film, non ricordo più quale, ero andato da lui in moviola a Roma.

Con l’entusiasmo del ragazzo quale ero, lì a parlare di cinema in un posto misterioso, una saletta di montaggio della Capitale d’Italia, del cinema e forse del mondo intero.

Mi sembrava di avere viaggiato mille chilometri, mi sembrava di essere finalmente diventato grande. Sarà stato l’inizio degli anni ’90, tutto era ancora coniugato al futuro.

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