La musica e i sogni

DI PAOLO MASSIMO ROSSI

Nel corso di un concerto ci fu chi guardò un signor pianista seduto a un pianoforte e che un foglio programmato lasciava intravedere ad adoratrici in maschera, allacciate a una melodia cantante e a vecchi amanti.

Le dita della destra in do, mib, sol del musico in minore apparivano come artigli fissi, mentre le altre della sinistra restavano a mezz’aria, pronte a battere sui tasti con la rivolta in settima, dominio del sol: armonie sgocciolanti su auscultati accordi.

Il silenzio garantiva languide assonanze. Ma la musica non esisterebbe senza il silenzio: questo qual liquido amniotico nel quale immergersi beati. Fuoriuscendo dal monadicante che salva e protegge, il silenzio biscromato del tempo rendeva la musica quaterdimensionale.

Trimore nell’anima non trovò accoglienza. Mancava di pathos e pianto.
Tempo fu carceriere, custode e guardiano. Ma “quale tempo?” fu la domanda.

La risposta di un filosofo alla moda: “Quello vero precede il quotidiano soffrire e lo segue scuotendo i rimpianti, mentre l’attualità si regge e prospera tra alloristi e invecisti, ignari che il pianista era in realtà una pianista.”
Che età aveva l’appassionato uditore? Forse già era vecchio.

Ma ai vecchi non si rimprovera, o si ignora, la voglia di ascoltare oppure no.
Certo, c’era chi sapeva che i silenzi, come anche quel che si andava contando nel contesto, non erano fatti per piacere. Per questo, per lui, non era ingiusto un rinvio, pur senza debordare nella morte nell’anima.

Gli sarebbe rimasto solo il sospetto che con la vecchiezza futura – e anche passata – avrebbe avuto difficoltà ad avere l’età della ragione.

Immagine tratta da Pixabay

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