La scuola, riflessioni e dintorni

DI MARINA AGOSTINACCHIO

In un articolo sulla scuola, riferito al libro di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, (La scuola progressista come macchina della disuguaglianza -La nave di Teseo, Milano 2021 -), ritrovo il senso di un’antica retorica sul “Si stava meglio quando si stava peggio”.
Vorrei dire la mia come ex insegnante di Lettere. E’ certo che dai metà anni ‘80 in cui ho iniziato a insegnare alle ultime decadi le cose sono assai cambiate. Riforme che si sono assommate a riforme.

L’articolista riporta le parole degli autori: “La riforma della scuola media del 1962; il libero accesso all’università del 1969: i decreti delegati del 1974-75; l’attività riformatrice elaborata tra il 1997 e il 2000 dal ministro Berlinguer sia a livello universitario (3+2) sia sull’autonomia scolastica e il (mai attuato) riordino dei cicli; la riforma Moratti del 2003, parzialmente inapplicata; il taglio delle spese all’istruzione voluto dal ministero Gelmini; la buona scuola di Renzi”, responsabile tutto ciò di una “lunga marcia dell’abbassamento scolastico”

A me sembra che quando parliamo di scuola si cavalchi l’onda dell’emotività, della ricerca del consenso a tutti i costi, della volontà di fare passare le proprie convinzioni attraverso una dialettica poco solida, o meglio da un approccio al problema scuola, perché prescinde come sostiene Vanessa Ronghi, da un inquadramento circolare che comprenda “ da elementari nozioni di pedagogia, di sociologia dell’educazione e di psicologia dello sviluppo, nonché di un più generale inquadramento della storia della scuola nella storia sociale e politica del paese”.

Ora, senza volere entrare nel merito di un discorso così ampio, comprensivo di riferimenti di pedagogia, sociologia, di psicologia dello sviluppo, oltre che storico, vorrei basare le mie riflessioni sull’esperienza quasi quarantennale di insegnante.

La traversata nell’universo della scuola è stata vita, umana, colma di contraddittorio sociali e personali. Ma questo aspetto della realtà che è la scuola ha in sé quel tessuto antinomico in cui agiamo e siamo agiti. Non facciamo parte di un mondo perfetto, perfettibile, però, sì.

A un cero punto del mio cammino professionale, dai miei anni 30, ho cominciato a pensare che le sole conoscenze, l’immensa attrazione per certi contenuti, la passione con cui trasmettevo quanto avevo appreso negli anni della mia vita, non potevano bastare a saziare gli alunni, né a instillare in loro interesse e cambiamenti radicali di approccio al sapere.

Mi ponevo altresì riflessioni su questioni riguardanti come avrei potuto raggiungere insegnando un pubblico eterogeneo, “diversamente uguale” portatore di intime urgenze individuali e in ambiti di apprendimento sempre diversi.

Mi piace così pensare a uno Stato garante non solo di un rispetto alla “promozione” della persona in ogni suo aspetto ma anche di uno Stato che si preoccupa di vigilare e pretendere che questo avvenga “Le persone non hanno solo il diritto di istruirsi ma hanno il dovere di farlo».
Come allora affrontare diverse e innovative modalità del lavoro in classe, senza rinunciare almeno a parte delle conoscenze imprescindibili, arricchite di percorsi formativi nei diversi ambiti in cui cresce e si costruisce una persona?

Certamente si possono fare transitare i “saperi” anche ricorrendo a linguaggi differenti. Si può, ad esempio, potenziando l’ascolto, alternandolo, o in luogo della lettura. Con gli anni ho percorso i sentieri radiofonici, le innovazioni messe a disposizione da questo mezzo di comunicazione per me potente, suggestivo, ricco di offerte formative.

“Prova a sentire un tempo di una partita di calcio alla radio e l’altro vedilo con altri strumenti messi a disposizione dalla tecnologia e racconta le differenze che noti, quali sono gli stimoli che si attivano in te con entrambe le modalità” – dicevo ai miei studenti.

La scrittura quale esercizio di formazione dell’apprendimento linguistico da sola non basta. Non basta come mero esercizio perché il contesto in cui vivono i ragazzi oggi è mutato. Come dice Luciano Floridi, professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione, “Le tecnologie digitali danno forma e influenzano il modo con cui comprendiamo il mondo e ci rapportiamo ad esso”.

Manca, penso, un vero interfacciarsi con il mondo dei ragazzi, partendo dalla realtà in cui vivono, quartiere, città. Manca un vero dialogo tra lo spazio scuola e una via abitativa, una casa dove si esprime la nostalgia della propria terra attraverso un linguaggio e una gestualità “altri” rispetto a un nuovo spazio geografico di accoglienza.

Come se si volesse chiudere in regole, convinzioni, modalità di approccio al sapere, l’aula, l’edificio in cui i nostri allievi trascorrono parte del loro sapere, spazio che però non costituisce la totalità della loro vita, del loro modo di sentire e di collegarsi al mondo. Calare in contesti reali a quella che dovrebbe essere una simulazione alla sempre mutevole riemersione all’esistenza dei nostri ragazzi, risalendo in superficie, anche questa dovrebbe essere la scuola!.

E per farlo – questo esercizio di preparazione “all’uscita” quotidiana nel mondo, da parte degli alunni,- bisogna viaggiare in comune accordo tra docenti, seguendo piste didattiche ed educative convergenti; il che non significa omologazione, tantomeno rinuncia alla didattica di ciascun insegnante.

Dovrebbe, il docente, partire dall’ affrontare una seria analisi sulle modalità del proprio lavoro in classe, spesso ridotta a lezione frontale, poco interattiva, in cui lo studente passivo non avverte coinvolgimento. Certo è più semplice riversare il proprio sapere, rafforzato negli anni, su una moltitudine anonima che spesso nominiamo solo per cognome.

Ho sperimentato gli anni del cosiddetto “Tempo prolungato”, in cui si alternavano in modo, fluido, gruppi di livello in tre pomeriggi settimanali e a rotazione. Ricordo che agendo su un’eterogeneità di alunni si potevano recuperare, consolidare e potenziare i livelli di ciascuno nelle tre discipline: italiano, matematica, seconda lingua. E si operava attraverso attività laboratoriali pensate sulle esigenze reali dell’allievo.

In contesti di apprendimento così particolareggiato, si attuava il principio dell’inclusione; ognuno veniva valorizzato, aveva la possibilità di potere ascendere al livello superiore.

Ho vissuto anche gli anni in cui nella scuola media l’offerta formativa era distribuita anche sul piano dell’operatività; ecco fiorire nelle ore di educazione tecnologica, l’orto, la cucina… e poi, grazie al sostegno del comune nella mia città, attività come doppiaggio, murales, musica, sport…
E infine ricordo quando il Corso musicale pomeridiano che organizzava con i commercianti della zona nel quartiere in cui una scuola si trovava il concerto musicale nella piazza del mercato, tra i venditori ambulanti, i negozi.
O i concerti con i ragazzi del corso musicale e i giovani che aderivano al corso di lettura espressiva dialogare insieme per uno spettacolo di fine anno in spazi cittadini di vera bellezza artistica!

Poi ci hanno pensato politiche di “taglio economico” e dirigenti incapaci a mortificare la scuola…

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