Maestra accusata di maltrattamenti assolta dopo cinque anni di processo. Era evitabile?

DI VITTORIO LODOLO D’ORIA

Una dozzina di famiglie si costituiva parte civile e la richiesta del PM, dopo 5 anni di processo, ammontava a 3 anni di reclusione per maltrattamenti. La decisione del giudice monocratico, “di fronte all’esito della lunga e completa attività istruttoria espletata” è, ad ogni buon conto, di “assoluzione perché il fatto non sussiste”. Questi i fatti in sintesi, ma vi sono altri spunti interessanti su cui riflettere.

L’indagine ha inizio a seguito di una “notizia confidenziale” circa alcuni comportamenti maltrattanti dell’insegnante, riportata a un Commissario di Polizia da un nonno risentito per un atteggiamento scortese della maestra nei suoi confronti.

Se solo vi fosse stata, almeno inizialmente, la volontà di verificare la fondatezza dei comportamenti incriminati attraverso il dirigente scolastico, si sarebbe potuta mettere in dubbio da subito la veridicità dei racconti anziché dare inizio a un’evitabile e lunga vicenda giudiziaria. Invece il by-pass del preside da parte degli inquirenti non-addetti-ai-lavori, che notoriamente nulla sanno di educazione e pedagogia come dimostra il seguito della storia, ha dato il via a quel lungo calvario giudiziario per la maestra che è culminato in un’assoluzione dopo 5 anni. Altro grave (e frequente) errore commesso dal commissario inquirente, ripreso più volte in merito dal giudice e dallo stesso PM, è quello di aver “aggettivato” e commentato alcune audiovideointercettazioni e il relativo clima della classe nella trascrizione delle immagini (“terrorizzante”, “da film horror”, “clima di terrore”). Il giudice finirà invece con lo smentire l’inquirente e con l’affermare che “dalla visione e dall’ascolto delle riprese emerge uno spaccato di vita scolastica molto regolare, punteggiato da momenti di maggior vivacità, in cui la maestra a volte rimprovera i bambini che sono troppo turbolenti, che si alternano a momenti più leggeri, in cui il clima è più giocoso e allegro, ma non si percepisce in alcun modo il clima di terrore che è stato descritto molto enfaticamente nel corso del dibattimento e che costituisce l’oggetto del presente procedimento”.

Le videoriprese – secondo il giudice – sono pertanto dirimenti rispetto a tutte le testimonianze e consentono di individuare puntualmente i pochi comportamenti inadeguati dell’imputata che usa spesso “locuzioni dialettali”, talvolta è poco materna con “metodi spicci” e, in una circostanza, allunga uno “scappellotto” a un bimbo. Quest’ultimo episodio – sostiene il giudice – “sebbene intollerabile, non integra il reato di maltrattamenti perché sporadico, non sistematico, né abituale come ben specificano numerose sentenze della Suprema Corte”.

Il frequente ricorso a locuzioni ed epiteti dialettali da parte dell’imputata, come pure i “metodi spicci” e “l’attitudine poco materna” vengono invece stigmatizzati dal giudice, in quanto non ritenuti certamente ottimali dal punto di vista educativo, ma “riguardano semmai interventi della sfera disciplinare proprio perché irrilevanti sotto il profilo penale.”

Mi si permetta a questo proposito di eccepire un paio di considerazioni sugli aggettivi “materno” e “spiccio” riferiti a una maestra. Costei, a differenza di una madre, non si trova mai di fronte a una relazione 1:1 ma più spesso di 1:29, dovendo altresì garantire incolumità, educazione, insegnamento e crescita a tutti i bimbi contemporaneamente e in ugual misura, senza potersi soffermare a ogni minima opposizione o capriccio del minore da scolarizzare. In altre parole, l’approccio potrà essere considerato anche poco materno, ma le maniere dovranno essere inevitabilmente “spicce” nell’interesse dell’intera classe. Non è infatti un caso se l’ambiente scolastico è giuridicamente definito come “parafamiliare” e non “familiare”.

Sebbene la vicenda abbia avuto per il momento (I grado di giudizio) un lieto fine con relativa assoluzione, non vanno dimenticate molte cose:

  • Una maestra è stata messa ingiustamente alla gogna mediatica per oltre un lustro.
  • Nessuno mai le rifonderà il danno fisico, morale e pecuniario causatole dalle accuse.
  • Si è dovuti ricorrere a una nuova maestra nell’organico della scuola.
  • È stato totalmente bypassato il dirigente scolastico che è la figura preposta a valutare l’operato professionale degli insegnanti
  • Sono state impegnate inutilmente ingenti risorse pubbliche (inquirenti, giudici, tribunali…)
  • Con quale serenità d’animo – infine – potrà mai esercitare la professione una maestra che, per vicende disciplinari, rischierà una pena detentiva pari a tre anni di reclusione? E quale mai sarà lo stato d’animo dell’intera categoria professionale?

Avendo infine studiato oltre 60 procedimenti penali nei casi di PMS, nonché analizzato i numerosi limiti dei metodi d’indagine, mi è d’obbligo sottolineare la grande attenzione del giudice in questione che non si è fatto trarre in inganno dalle fuorvianti aggettivazioni delle audiovideointercettazioni da parte degli inquirenti, né dalle testimonianze dei bimbi verosimilmente condizionati dai genitori e soprattutto dalla incredibile richiesta di tre anni di reclusione avanzata dal PM.

Sentenze come la presente sono utili a restituire al dirigente scolastico il compito che gli appartiene di vigilare sull’insegnamento ad alunni e studenti senza dover scomodare l’Autorità Giudiziaria e i tribunali in ben altre faccende affaccendati. Se ciò accadrà, l’Italia finalmente smetterà di essere l’unico Paese occidentale che ricorre ai procedimenti penali anziché a quelli disciplinari nelle crescenti controversie docenti-genitori o più in generale scuola-famiglia.

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