Parole azzurre nella mia anima

DI GIOVANNI BOGANI

E, ricordi, quando non avevo ancora vent’anni, e vedevi insieme a me una ragazza con i capelli rossi, gli occhi azzurri, la pelle bianchissima da tedesca. Viveva nei palazzi immensi della periferia più implacabilmente anonima della nostra città. Sotto i suoi palazzi enormi, la ferrovia.

Amavamo tutti e due De Gregori. Francesco De Gregori, che avevamo scoperto più o meno da soli, mentre la radio dava “Pigro” di Ivan Graziani e “Anima mia” dei Cugini di campagna. Un giorno, lei mi fece sentire una canzone. Sommessa, vibrante e misteriosa.

Una canzone di De Gregori che non avevo mai sentito. Invece no: l’aveva scritta lei, per me. È la canzone più bella che io abbia mai sentito. Ho ancora il nastro con la tua voce esilissima. Tu che suoni la tua canzone, con una chitarra classica che si sente appena, e una voce esilissima, che non appoggi sul tempo, sul ritmo.

Ma ci sono quelle parole, che hai saputo mettere insieme in un modo così imprevisto, così capace di illuminare gli squarci di buio in cui si dibattevano le nostre vite. A me non è riuscito mai.

“Hai scritto parole azzurre nella mia anima, rabbia, voglia di gridare. Illusioni bruciate da fantasmi lontani di ricordi che salgono in gola, oggi più forti di sempre”, scrivevi.

Mi chiedesti di cantare quella tua canzone, e di non dire mai a nessuno che l’avevi scritta tu. “Mattina fredda davanti alla tua porta chiusa, la mia busta in mano, e voglia di gridarti: fammi entrare, anche per un momento, una carezza e poi, ti giuro, sparisco”.

L’avevi scritto tu. Per me. Come ho fatto a non amarti, a prendere treni per altre destinazioni, treni che passavano sotto le tue finestre, otto piani più sotto?

Treni per cercare l’amore, la rivoluzione, la rabbia, la povertà, la bohème. Treni per inseguire altri occhi azzurri in mezzo alla nebbia. Come ho fatto, ad andare così lontano da te. Credevo anche di suonare meglio di te.

Ma tu leggevi le note, e piano piano hai imparato mille cose più di me. Eri tenace. Andasti in Germania, per studiare filosofia. Incontrasti un insegnante, di vent’anni più grande di te, e non avemmo più canzoni da cantare insieme.

“Forse ti perderò, magari non ti ho mai avuto”, scrivevi. E ti chiedevi “Che cosa ti ha mandato a rischiarare il grigio di chi stringe le tue ali di angelo macchiate dalla gente”. Io non capivo niente. E adesso non so davvero dove siano finite, quelle ali.

O se ci siano mai state. Ma tu le avevi viste. “Dammi la forza, per quando verrai a dirmi che le mie mani dovranno imparare a tremare da sole”, scrivevi. Invece, sono le mie mani, quelle che hanno dovuto imparare.

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