Passeggiando per Lisbona (racconto)

di Paolo Massimo Rossi

Lisbona (Racconto)
Sarei stato viaggiatore a Lisbona, dove ero arrivato con volo diretto da Roma.
Nella Rua Nova do Carmo, trovai una camera in un piccolo albergo caratteristico, con i balconi carichi di fiori.
Seguendo il buon senso, mi procurai un’auto per gli spostamenti in città e per raggiungere le località da visitare e fotografare. Noleggiai una Mercedes di medie dimensioni.
I giorni furono subito pieni: il Portogallo mi accoglieva con atlantici umori. Spesso, la sera, mangiavo nella Casa do Bacalhau.
Affiancata al marciapiedi antistante l’edificio bianco e pannellato in azulejati ornamenti, era parcheggiata una vecchia auto Isetta che sembrava in attesa. Il proprietario della pensione mi disse più volte: ≪Le piace? Una vera auto d’epoca, se l’acquista fa un vero affare. Il prezzo è un po’caro, però congruo peruna così originale vettura≫.
Ero preso dal fascino dell’ Isetta non tanto per l’auto in sé, quanto, piuttosto, per l’idea che, con quella, non mi sarei sentito un turista: la mia vanità. Era azzurra, o meglio di uno sbiadito color celestino. I pneumatici erano cerchiati di bianco e il volante era avvolto in una guaina di finta pelle slabbrata e bucherellata, fissata con dei bottoncini di metallo ormai arruginiti.
Più di una volta il proprietario mi aveva offerto la chiave, sorridendo ed esortandomi, con gesti delle mani e della testa, a salire a bordo e provarla. Nel dirlo, apriva la portiera frontale di accesso sulla quale era innestato il volante. Sempre accompagnava il gesto con un sorriso ammiccante.
Avessi accettato, l’Isetta avrebbe percorso con me, leggera e meccanica, vicoli stretti e gradini precipitanti verso il fiume e il mare lontano, per svoltare infine, prima di altri orizzonti e prima di altra avventura, in penultimi angoli di strade. Non decidevo.
Uscendo dall’hotel al mattino, mi fermavo a curiosare nella Livreria Portugal, dove entravo varcando una porta di legno verniciata di verde. Lì avevo acquistato un libro guida di Pessoa e di Lisbona: sfogliando le sue pagine, sarebbe stato facile addentrarmi nella parte vecchia della città.
In un gioco scherzoso e poetico, immaginavo il libro levitante nell’aria, come guida rarefatta a precedermi. Avrei cercato di raggiungerlo affrettando il passo, per ritrovarlo, di nuovo materia, nelle mie mani in attesa. Il libro e io, nella Rua Nova do Carmo, sul marciapiedi ancora lucido di una pioggia antica che immutata sembrava resistere, quasi a fissare un pensiero e le sue iterate parole, specchio di nuovi e vecchi sogni. Allora poteva accadére che crepuscoli acquosi rigassero di blu, di lilla e di giallo le strade, i cortili, le auto e i tram lenti nel loro arrampicarsi su per le strade in salita.
Nell’atrio dell’albergo, con annessa caffetteria poco oltre l’ingresso, conosco due giovani: fratello e sorella, italiani in vacanza.
“Francesca,” mi dice lei, offrendo un sorriso.
“Biagio,” aggiunge lui, ritrosamente.
Stringo deciso le mani: audace e nervosa quella di lei; molliccia e sfuggente quella di Biagio.
“È da molto che è a Lisbona?” chiede la ragazza guardandomi negli occhi.
“Una settimana,” rispondo.
Ci sediamo e ordiniamo degli aperitivi che avrebbero reso facile ogni successiva confidenzialità.
Al tavolo di alluminio, col piano screziato di sfumature grigio satinate, Francesca e Biagio bevono da lunghi bicchieri addobati con fette d’arancio in precario equilibrio sui bordi e cannucce sporgenti; fissi gli sguardi, quello di Biagio nel vuoto, di Francesca sorridente e forse per me.
Si avviano complicità d’atmosfera, in attesa di parole da pronunciare per sapere di più.
Di fronte al tavolo, attraverso le trasparenza di una vetrina serigrafata con stilizzate bottiglie di Porto, faceva mostra di sé la sagoma dell’Isetta, in coerente pendant con la stradina di selci sconnessi. Accanto, il marciapiedi sembrava invitare a un passeggio verso mete usuali di viaggiatorie attrattive, tra ombre e lucori a volte tremolanti sulle sfaccettature con cui la luce del sole tagliava il selciato.
“Ha visto la torre di Belem?” mi chiede Francesca.
“No, vorrei andare oggi, venite con me?”
Saliamo sulla Mercedes, lei mi siede a fianco, Biagio dietro.
In fondo, non sapevo perché li avessi invitati.
Partiamo; poi Francesca: “Ho dimenticato gli occhiali da sole.”
“Vuole che torniamo indietro?” Chiedo, offrendo la mia gentilezza.
“No, non importa, li indosso più per moda che per necessità.”
Biagio siede in silenzio, cadenti le sembianze del volto, contrastanti con occhi di un color acciaio scurito dal tempo. Francesca parla di sé e chiede di me: “Resta molto tempo in Portogallo?”
“Voglio visitare Lisbona, Coimbra, le cattedrali e le fortezze dei Templari.”
“Le interessano i Templari? Che mestiere fa?”
“M’incuriosisce la loro storia, voglio andare anche a Tomar.”
“Dov’è?”
“A nord di Lisbona, non è lontana.”
“Noi vorremmo esplorare la costa, l’Atlantico; viene con noi? A Tomar ci andrà dopo.”
Guardo nello specchietto la faccia di Biagio: è inespressiva.
Francesca si riavvia i capelli, nervosamente apre e chiude il finestrino. Ha mani piccole, con le unghie tagliate a squadro, il collo abbellito di un ninnolo d’oro appeso a una catenina e proteso nello scarto dei seni.
Vorrei chiedere qualcosa di lei e del fratello, lo farò più tardi, adesso mi dedico a guardare la strada e guidare.
Poi chiedo: “È molto che siete a Lisbona?”
“Due giorni” risponde Francesca, ”Ci fermiamo una settimana. E lei?”
“Ancora qualche giorno.”
Nel pomeriggio esco da solo a camminare senza meta. In Piazza Dom Pedro mi accomodo in un bar e chiedo un caffè. Mi guardo intorno, mi attira un passaggio coperto in lontananza: la luce della piazza impedisce che gli occhi possano scrutarci dentro, forse m’inoltrerò sino a svelare quell’ombra.
Mi alzo e torno verso do Carmo, mi accompagna la brezza che risale salmastra dal mare non lontano.
Alle sette bussano alla mia porta, è Francesca che mi chiede se voglio uscire per la cena con loro; appuntamento per le otto nell’atrio.
Scendo qualche minuto prima e il proprietario s’informa se sono ancora interessato all’Isetta.
Alle otto mi raggiunge Francesca. “E Biagio?” Le chiedo.
“Non si sente bene, preferisce restare in camera sperando che il mal di testa gli passi.”
In auto raggiungiamo le colline a nord. Dalla città bassa saliva l’umidità che condensava in alto, nel cielo notturno, facendo aleggiare un sipario nebbioso che velava il brillìo delle stelle.
Parcheggio, troviamo un piccolo ristorante e ci sediamo a un tavolo sistemato all’aperto, sul marciapiedi di una stradina in leggera salita.
Non so cosa raccontare a questa Francesca che mi aveva chiesto di uscire, di cenare insieme e di passeggiare in città.
“Non mi hai parlato delle tue attività,” mi dice guardandomi con occhi quasi inespressivi e che si animavano solo quando si sentiva osservata.
È abbronzata. Accavalla le gambe mostrando ginocchia perfette.
Guardo il suo viso, l’attaccatura dei capelli termina con una punta appena accennata al centro della fronte. Non è alta, eppure longilinea.
L’ascolto parlare, replico con dei sì o con dei no, penso che potrei essere più gentile con lei. Intanto ordino un Porto, un gosto di famìlia, chiedo.
Camminiamo, dopo la cena, per strade percorse da languidi passanti e coppie di turisti sedotti dall’aria notturna. Volti maschili a volte ricchi di baffi, volti femminili dalle labbra rosse come per una festa d’estate.
Infila il suo braccio sinistro sotto il mio destro.
Avrà trentacinque anni, più o meno; Biagio è certo più anziano.
Un canto risuona in fondo alla via.
“Andiamo?! Propone.
Entriamo in un cortile circondato su tre lati da un porticato con grandi arcate sorrette da colonne sottili.
Al centro, un’anziana cantante celebra la sera ormai tarda con un tristissimo fado in tonalità minore. Una sola chitarra accompagna la voce che si affanna a spiritualizzare il senso di un incerto futuro.
Girando gli occhi più che la testa, guardo ancora Francesca, in piedi accanto a me; forse è bella, certo ha modi sensuali.
Non ho voglia di sapere altro di lei, rimando a domani.
Ero venuto a Lisbona per viaggiare e per fotografare la città, le case e i paesaggi, invece mi aggiro tra fioche luci notturne.
Il Fado suggerisce nuove malinconie, mai prima provate.
Lei, la cantante, è immobile nel grande cortile, avrà forse settant’anni ma la voce è limpida e forte. Ieraticamente, evita pleonastici gesti; le braccia restano abbandonate lungo il corpo etereo. Ha il viso scavato, le labra truccate con un rossetto aggressivo e capelli bianchi legati sulla nuca, tesi sulle orecchie.
Il chitarrista si avvicina, porge il cappello, riceve qualche moneta per il conforto della notte in arrivo.
Torniamo in auto e intuisco lo sguardo di Francesca; vorrebbe forse ascoltare qualche parola da me, mi chiede se può fumare, rispondo che sì.
L’attimo è lì, pronto a recuperare l’atmosfera del fado: un’intimità che si nasconde e si svela in attesa di un gesto, di un’imperfezione che renda seducente il momento.
Torniamo in Rua do Carmo; il silenzio dell’atrio si adagia sulla penombra con eufonica assonanza. Saliamo la scala, una guida rossa bordata di blu e fissata ai gradini con barrette di ottone, attutisce il rumore dei passi.
Il corridoio deserto permette di prolungare la stretta di mano, lasciando che il tempo scivoli impalpabile su parole che non hanno motivo per essere pronunciate.
Chiusi la porta della stanza dietro di noi.
Disse solo: “Spogliami tu.”
Nel dormiveglia notturno guardo l’orologio di plastica appoggiato sul comodino: le quattro. Allungo il braccio, Francesca è andata via, sarà ormai nella sua stanza.
Mi rigiro nel letto, tirando il lenzuolo sul corpo nudo e umido di sudore freddo.
Non so nulla di questa donna; forse è più giovane di come il corpo si è mostrato e di come parlava di sé.
Torno al mio sonno, sordo a ogni domanda.
Mi svegliai per la luce diffusa dalla persiana solo accostata. La mattina doveva essersi già inoltrata nel giorno.
Ero solo e rimasi per un po’in uno stato di dormiveglia.
Le dieci e mi alzo.
Nel piccolo bagno, mi dedico alla cura di me. Torno in camera, inizio a vestirmi, poi esco.
Camminando nel corridoio, ho l’impressione mi manchi qualcosa: sì, portafoglio e documenti. Torno in camera, cerco, non trovo neanche la macchina fotografica, penso: Francesca.
Incalzato da preoccupato istinto, salgo al piano superiore e busso alla sua porta, senza ottenere risposta.
Nell’atrio chiedo di Biagio e Francesca al proprietario dell’albergo. “Francesca?” s’informa.
“Ma sì, la signorina e suo fratello, siamo usciti insieme ieri.” “Ah, la signora Ilde Alborelli e il marito.”
Perplessità lascia spazio all’interpretazione dei fatti.
“Sono usciti?”
“Sono partiti questa mattina alle sei, come da programma, credo avessero un aereo alle otto; ha deciso poi per l’Isetta?”
Torno in camera e faccio l’inventario: mi mancano tremila euro, carnet di assegni, carte di credito, documenti e la macchina fotografica.
Tra rabbia e rancore, si fa strada un sorriso d’ironia. Per le circostanze impreviste, per le ombre ingannevoli di una stanza di notte, per il letto disfatto, per le parole che furono taciute perché non debordassero in impudenti cliché.

*Immagine pixabay. Torre Belen Lisbona

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