Prati montani: chi li salverà?

DI FABIO BORLENGHI

 

 

Chi, dopo una lunga camminata in montagna con zaino in spalla, non ha mai fatto sosta sedendosi su un masso o per terra sull’erba col cuore a mille nel bel mezzo di un’ampia e luminosa radura erbosa?

In quell’occasione gli occhi dell’escursionista si saranno senz’altro soffermati sullo skyline del paesaggio circostante, sulle farfalle in cerca di polline sui fiori della radura, sul volo di una poiana apparsa nell’azzurro del cielo e su tante altre belle immagini visibili solo da un luogo aperto e non certamente dall’interno di un bosco.

Già…le immagini “belle”.

In effetti, chi va per sentieri in montagna o in collina lungo una delle tante sterrate bianche non può che essere alla ricerca della bellezza dei luoghi, valore inestimabile per coloro che la cercano.

Tuttavia viene spontanea una riflessione sul fatto che il mosaico paesaggistico fatto di boschi alternati a zone aperte, come i prati montani, dove il bosco è assente, non è soltanto opera di madre natura ma del binomio antico uomo-natura.

Se fosse solo la natura a comandare, sotto una determinata quota altimetrica, il limite dei boschi, non troveremmo che…alberi.

Tuttavia, mentre è facilmente comprensibile che città, strade, ferrovie, aeroporti e tutte le infrastrutture civili abbiano occupato il posto di madre natura, meno intuibile è che un prato montano abbia occupato il posto del suo fratello maggiore: il bosco.

Ma come avviene questa trasformazione?

Fino alla metà del secolo scorso, per esempio nell’Appennino, i paesi montani e collinari erano completamente abitati. Nei vicoli i bambini si rincorrevano giocando, le donne sedevano sull’uscio rammendando qualche vestito, ogni tanto accudendo galline e conigli, ma…gli uomini?

Molti di loro si dedicavano alle cosiddette attività agro-silvo-pastorali, ovverosia la coltivazione dei cereali nei campi, la pastorizia, l’allevamento del bestiame domestico, l’orticoltura, il taglio dei boschi e tutto quello che ruotava attorno ad un’economia prevalentemente agricola, e di sussistenza, con filiere alimentari corte anzi…cortissime.

Il paesaggio che ne derivava si mostrava alla vista con uno skyline fatto di un mix di profili montani e collinari intercalati da boschi e ampie zone aperte coltivate o pascolate, dove l’uomo lavorava, il tutto intervallato da paesi e frazioni.

La trasformazione socio-economica che investì il nostro paese nel secolo scorso, dalla metà degli anni cinquanta in poi, causò il progressivo spopolamento di questo “presepe umano” fino a toccare un minimo storico che più o meno è rimasto tale fino ai nostri giorni.

Così tutti a vivere nelle città di pianura, respirando aria non sempre pulita e occupando posti di lavoro che in parte, qualche decennio dopo, si sarebbero trasformati in attività precarie.

Ai frutti degli alberi degli orti di casa si preferirono così le susine del sud America arrivate da noi bruciando cherosene nei voli notturni sopra l’oceano Atlantico (filiera lunga!…anzi lunghissima!).

Col tempo la natura, lentamente ma progressivamente, si è riappropriata dei tanti luoghi abbandonati dall’uomo nel passato.

Tante radure erbose sono tornate a essere bosco e tanti sentieri si sono persi perché fagocitati dalla vegetazione, così pure molti paesi dell’Appennino sono ormai spopolati.

Ora, senza nulla togliere al valore naturalistico dei boschi, la perdita di questi prati montani, tripudio di colori e profumi in primavera, dovrebbe indurci a una riflessione.

Se un tempo questi luoghi davano da vivere a tanta gente perché oggi ciò non può più accadere?

Certamente la vita di un tempo era fatica, sudore e a volte miseria, ma oggi ci sono fior di mezzi e attrezzi che potrebbero consentire a molti giovani del terzo millennio di tornare ad abitare quei paesi spopolati per riprendere con forza, e perché no…anche con passione, le attività dei loro nonni.

Non trascurabile infine l’importanza naturalistica della conservazione di queste praterie, dette secondarie in quanto poste al di sotto il limite altitudinale dei boschi. Esse infatti contribuiscono al valore di biodiversità perché ospitano tantissime specie d’insetti e sono un fondamentale punto di alimentazione per mammiferi e uccelli.

Non ultima, ma non meno importante, la manutenzione degli ambienti montani, oggi ridotta al lumicino, ritroverebbe vigore con nuove braccia e rinnovata attenzione.

Per concludere, chi potrebbe, o meglio dovrebbe, promuovere questo ritorno…al futuro?

Innanzitutto la politica, in teoria.., per esempio defiscalizzando nuove iniziative di stampo agricolo nei primi anni di avvio. Sulla carta, a livello regionale, esistono i PSR (Piani di sviluppo rurale) strumenti nati per la programmazione e il finanziamento di attività agricole, interconnessi con fondi europei destinati allo scopo.

Purtroppo il mostro burocratico italiano non agevola queste iniziative, ma c’è anche da chiedersi…quanti saranno mai i giovani disposti a cambiare vita, salvando così i prati montani?

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