Scenari che si aprono dalle parole di Chandra Candiani

DI MARINA AGOSTINACCHIO

“Questo immenso non sapere è il libro di Chandra Candiani” relativamente a cui ho letto su Doppiozero un’interessante intervista
Vorrei prendere spunto da alcune parole della scrittrice per allertarmi cercando di stabilire un contatto con chi mi leggerà.

“Sono viva per musica” scrive in un verso Chandra Candiani. Viva per musica, così mi pare, significa viva per eccedenza, viva perché non siamo solo in quello che possiamo capire, ricordare, spiegare.

Viva per l’occasione di aprirsi alla meraviglia, di non perdere la magia, nonostante le ferite – o in grazia di ferite – che concedono un altro passo e un guardare nuovo, concedono di costruire con pazienza una mappa del cuore, di orientarsi, di provare ad obbedire “a una legge di fioritura”.

Essere vivi oltre quello che è struttura del nostro corpo, dotato di mente e di logica, di ricordo che emerge dal magma della memoria, attraverso le occasioni offerte dal risveglio dei sensi.
Essere vivi per “eccedenza”, farsi guidare dallo stupore, dalla meraviglia, abbandonarsi alla magia del mondo che non cogliamo immediatamente, quel mondo sotterraneo, nascosto, cogliere nella ferita e nell’inciampo della vita la possibilità di uno sguardo distonico, strabico, profondo.

E ancora, prendo dall’intervista un’altra frase della scrittrice.
“La sensazione scomoda e stupefacente di non sapere niente”, in apertura del libro, è abbandonarsi allo sbaglio, immergersi in “altre misure oltre la misura e altri sensi oltre al senso”.
Ma cosa vuole dire abbandonarsi allo sbaglio? Lasciarsi andare, non temere il giudizio degli altri, mi sono detta.

Ingaggiare una lotta contro quella parte di sé incline ai compiacimenti, riuscire a reprimere l’orgoglio, l’assoluta presunzione di fare sempre la cosa giusta dopo avere vagliato, soppesato, percorso la strada condivisa da una platea di spettatori che pensano di essere nella verità.

Inoltre, lasciarsi andare allo sbaglio, abbandonandosi come una navicella alla corrente, ascoltando il suono impercettibile delle cose, sintonizzandosi in altre frequenze che sono oltre una logica comune, oltre il visibile, oltre il perimetro della propria vita.

Ma noi, io, l’abbiamo mai sperimentato questo ascolto? Forse solo vivendo il mondo fatato dell’infanzia, riproducendo in un angolo del nostro guardino il tenerissimo Fabulinus, “Favolino” quello dei tempi del balbettìo dell’infans”.

Ecco apparirci allora un nuovo scenario in cui questa struttura sotterranea e il tempo lineare, a volte in contrasto tra loro, convivono in una vertiginosa giostra fatta di credenze, immagini e racconti.

Ci avete mai pensato al significato del vostro nome o di uno pseudonimo che avete scelto? Nel caso della Candiani, lei dice che Chandra è il suo nome ‘religioso’, o almeno la sua metà, e significa luna a lei molto cara, una testimone silenziosa che “da lontano registrava i danni e conservava memoria di sguardi, di fatti e parole”.
Il mio nome è Marina ed è chiaro il riferimento all’elemento parte della Natura, il mare.

Ho riflettuto, ripensando a Chandra, che se e pensassi al mare come a uno svelatore di un mio archetipo, fatto di memorie lontane, di eventi accaduti, di volti e di parole potrei attribuirgli un carattere di sacralità.

Forse andrei in cerca anche di un significato nascosto delle ferite accumulate nella mia vita, darei loro un’ evidenza proprio come fanno i Giapponesi con lo Kintsugi, la tecnica giapponese utilizzata sin dal XVII secolo per riparare oggetti in ceramica di pregio.

Così, come in quest’arte le fratture vengono solo lasciate visibili, valorizzate con l’aggiunta di polvere d’oro, rendendo il nuovo oggetto, un’opera d’arte.
Metafora, il Kintsugi, sull’accettazione dei propri difetti e delle proprie imperfezioni, degli errori, dei danni subiti, dei malesseri conseguenti, delle storture che ci caratterizzano e degli inciampi…

“Le ferite – dice Chandra -vanno salvate e interrogate e lasciate vive, per vedere le cose così come sono”, con il bello e il brutto che contengono, dico io. Perché solo guardando in faccia le cose come sono, conquisto la libertà dai condizionamenti.

“Ogni volta che vedo il male in me sento un bene, ho visto, ho visto, posso essere libera. Ci vorrà lavoro, ma posso essere libera.” – dice Chandra.
Conoscere il male, secondo la Candiani, ci rende ortolani; infatti per lavorare la terra a renderla orto, bisogna dissodarla, concimarla, innaffiarla, seminarla, levare erbacce, dare un tutore alle piante fragili, curarla giornalmente.

E poi… sapere aspettare. Nel caso nostro, questo vuole dire che dobbiamo coltivare la virtù. Ci aiuterà, se non proprio ad andare oltre i nostri vizi capitali, almeno a prenderne consapevolezza e a volere migliorare.

Ma non solo, Chandra ci dice che proprio quella teoria di imperfezioni insite in noi e intorno a noi, (l’invidia, la malevolenza, la competizione, l’orgoglio…) possono essere fertilizzante per il nostro orto, cosicché “allora le nostre beghe, rivincite, ripicche sono pochezze, ma anche concime per l’orto”.

Di particolare interesse è quanto la Candiani ci dice sull’ascolto e le parole, (potenza straordinaria della parola e dell’ascolto!), quelle sagge dei Maestri (Chandra si riferisce ai maestri buddhisti). Metterci in posizione di ascolto significa attivare anche il corpo in una posizione di attesa, di scoperta di significati nascosti o non ancora rivelati.

“Intonarsi al corpo, significa non pensarlo, ma riceverlo e assaporare il suo essere elementi e il suo fare ritorno a essi” ; il che vuole dire non aspettarsi di capire la parola con la mente, ma entrare in sintonia con un’altra dimensione, che la scrittrice indica come “altra temporalità” che è appunto l’attesa, il luogo della meditazione per ritrovare il sé originario, la vita stessa che pulsa, fatta di sfumature di silenzi, di raccoglimento in sé.

Metterci in posizione di ascolto ci dà l’opportunità di introiettare quanto viene detto, ci permette di operare uno scavo verticalizzante in noi stessi, per poterci addentrare nella dimensione di una natura ricostruttiva di quello che siamo, come in una sorta di visione retrospettiva.

Leggo in un saggio storico che secondo Plinio e Ovidio, inoltre, la funzione dell’orecchio è importantissima in quanto esso «è dotato di memoria ed è un luogo in cui si possono “riporre” (condere) le informazioni». La raffigurazione alchemica dell’«orecchio della memoria», collegata alla forza simbolica dell’oralità, della «parola parlata, era già presente in una Roma del III secolo a. C.

Circa il valore e la forza della poesia, Chandra dice: ”Attendo tanto la poesia, e quella mutezza per Rilke è il compito più duro del poeta. Così con la vita, i ricordi dolorosi, i nomi che ci sono diventati stretti, le definizioni con cui gli altri ci imprigionano e noi ci cresciamo dentro, evadiamo e non siamo più lì, per questo poi non ci si incontra più, non c’è mobilità di pensiero”.

Anche la poesia è parola data e ascoltata. Per la Candiani “la poesia forse aiuta a non morire, a parlare dopo le morti che viviamo in vita. A ululare e cinguettare, soffiare e ruggire, fare versi… La poesia insegna a ricevere le parole, a farsi dire dalle parole, quindi è una faccenda di umiltà, di attesa, di spiazzarsi per non dire opinioni ma memorie antenate o fulmini intuitivi, lampi di futuro. È un dono e come tutti i doni può andare perduta o spezzarsi e come tutti i doni ci vuole gratitudine e ricettività e anche sapere che non ci appartiene”.

 

Ricevere le parole… Mi è parsa esserci una alchemica consonanza tra il fare poesia della Candiani e quella che ci indica lo studioso Maurizio Bettini, classicista e scrittore, in un suo ultimo libro. Bettini afferma che nella Roma del III secolo d.C. era fondamentale il carattere sonoro della voce poetica che si esprimeva nella dimensione interiore della “meditatio compositiva”, in tal modo «le immagini mentali del poeta prendevano forma poetica per la prima volta», poi si dirigevano verso «l’orecchio esterno» del mondo (lo scriba a cui veniva dettato il testo che si poneva da mediatore tra l’auditorio e lo scrittore.

«L’orecchio esterno» del mondo poteva così diffondere gli echi e i segni ricevuti dalla lettura dei testi.

Aggiunge Bettini che secoli più tardi la prima poesia volgare europea, quella dei trovatori provenzali, si incentrerà sul chan, il “canto” del poeta che esprime il melhurar della sua interiorità ed esprimerà la natura vocale dei suoi testi “spesso attraverso “tenzoni” verbali, anche con richiamo esplicito a un dialogo fra il poeta e il suo pubblico (L’orecchio del mondo), un pubblico per lo più di poeti.

Vorrei concludere questo discorso intrecciato di tante parti e riflessioni con una frase di Chandra Candiani sulla sua ricerca di senso nel fare poesia:
“Cerco poesie che mi facciano uscire dalla tana, all’aperto, a tremare e ascoltare voci. La poesia non è dar voce a chi non ce l’ha?”

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