Amore e pop nella buona novella di Max Pezzali

DI GINO MORABITO

Resta ancora lì, ad attenderci in un punto fermo della vita dal quale tutti prima o poi dobbiamo passare. La voce di Max Pezzali esce dallo stereo e arriva come una pacca sulla spalla. Le parole di un amico di lunga data, sempre giuste, prive di fronzoli, autentiche. Parole nude che portano nelle nostre quotidianità qualcosa di nuovo, ma vecchio e vero come il cielo.

Che tu sia ormai adulto o un fondamentalista del rock d’autore, non importa. L’eterno 883 con la passione per le Harley Davidson continua a raccontare storie che rappresentano ben più di semplici frammenti di intrattenimento, ma colonne sonore che ci hanno rubato le parole di bocca nei momenti più intimi della nostra adolescenza.

Canzoni d’amore, d’amicizia, di futuro, che oggi suonano rincuoranti di ottimismo e continuano a ripeterci: non smettere mai.

Qualcosa di nuovo, il disco che segna il ritorno agli inediti di Max Pezzali. Un rigenerante tuffo in quell’ottimismo anni Novanta rivisitato in versione 2020. A dispetto di tutto e tutti.

«Sono ancora profondamente legato a quella concezione antica, in base alla quale l’album rappresenta uno spaccato della vita dell’artista e delle persone che gli gravitano attorno. Se lo pubblichi dopo, in un altro momento, rischia di diventare completamente obsoleto, fuori dal contesto che lo ha generato. Per me era necessario farlo uscire adesso, in questo tempo.»

Il senso del tempo. Potremmo pensarlo anche come un sottotitolo dell’album. È quella linea invisibile che attraversa le nostre esistenze, ma anche una guida al ritmo che ci si deve augurare di avere nella vita.

«Alla mia età ti rendi conto che, con l’aumentare delle responsabilità nella vita, si riducono le possibilità di scelta. Le responsabilità, gli affetti, ti legano.

E allora, tra te e te, chiedi al tempo di rallentare un attimo, di avere un ritmo più lento. A sedici anni spingi il tempo in avanti, non vedevi l’ora di arrivare ai diciotto per prendere la patente. Oggi, il mio ieri è già due anni fa.»

Viene fuori un selfie, ironico ma impietoso, che ritrae un’intera generazione.

«La mia è una generazione un po’ incompiuta. Con un piede tra la fine del mondo precedente (una generazione, la mia, che non ha fatto il ‘68 né il ‘77, non ha partecipato ai grandi cambiamenti storici…) e il mondo tecnologico del dopo, quando si spalancavano numerose le opportunità.

Non siamo, né i paladini del vecchio né gli innovatori del nuovo, e questo essere in mezzo ci rende un po’ incompiuti. Tuttavia, l’idea di incompiutezza non dev’essere necessariamente negativa: non avere delle certezze assolute, porsi continuamente delle domande, è già un bel passo avanti.»

La Polaroid via via si delinea, i volti prendono forma.

«L’immagine che rappresenta la mia generazione è quella che ho di me stesso: cadeva il muro di Berlino e noi eravamo al bar. Con i miei amici guardavamo, dicevamo “che figata!”, mentre la storia passava in tivù, seduti al tavolino di un bar.»

La proliferazione del disimpegno in jeans e chiodo nero di pelle, che passa il testimone agli adulti di domani.

«Noi per primi siamo stati considerati una generazione irrilevante, senza grandi storie da raccontare. Non fatevi impressionare da quelli che adesso dicono lo stesso di voi.

L’ho vissuto sulla mia pelle, è un normale meccanismo di autodifesa di tutte le generazioni. Narrate le vostre storie, scrivetele. Comunque meritano di essere raccontate.»

Storie che, dalla pubblicazione di Hanno ucciso l’Uomo Ragno, hanno rappresentato ben più di semplici frammenti di intrattenimento, ma colonne sonore che hanno rubato le parole di bocca nei momenti più intimi della nostra adolescenza. Musica che ancora oggi scorre libera nelle canzoni di un artista pop che si porta dietro l’eredità del ragazzo del ‘92.

«L’eredità che mi porto dietro è una fiducia cieca nell’idea di pop. Già nel 1992 avevo capito che il pop ha la capacità di creare delle sintesi che non sono un limite, quanto piuttosto uno stimolo creativo.

La possibilità di raccontare delle storie all’interno di una scatola, che sembra limitata, ma – nel limite – viene fuori l’estro.»

Una scatola, o meglio una stanza, dove ci si può rifugiare per ritrovare la forza perduta. Un luogo ideale in cui trovare conforto, ristoro, energia. Una stanza fisicamente vuota da riempire con qualcosa di significante.

«In quella stanza porterei probabilmente un divano, che negli ultimi tempi ha assunto il valore del nuovo focolare, il luogo di aggregazione domestica.

Porterei anche una scatola di vecchie fotografie, perché credo che la memoria sia ancora un elemento fondamentale per tutti noi, specialmente quando si parla d’amore, di sentimenti.

In quella stanza poi non potrebbero mancare mia moglie e mio figlio, che rappresentano gli affetti a me più vicini. Sono il mio passato e il mio futuro.»

L’universo mondo di Max Pezzali. La sua voce esce dallo stereo e arriva come una pacca sulla spalla. Le parole di un amico di lunga data, sempre giuste, prive di fronzoli, autentiche. Parole nude.

«Bisogna essere nudi quando si scrivono le canzoni. Se le scrivi troppo da coperto, probabilmente, è difficile che alle persone arrivi qualcosa che poi permetta loro di portarle nelle proprie vite.»

Ordinarie quotidianità che si consumano in una sala da bowling, dove, tra un tiro e una rincorsa, l’amore attraversa varie fasi, per poi ripartire con un altro lancio. Non sempre si fa strike, spesso i colpi vanno a vuoto o finisco nel corridoio laterale. Fa parte della vita.

 

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